Cristallo XLVIII 2006 1-2

Storia e politica della questione altoatesina nel XX secolo, il secolo scorso

 

Patrie piccole & nazionalismi grandi

La questione della toponomastica

Alcuni dati sulla situazione delle scuole in Alto Adige

La storia della storiografia della questione altoatesina

Considerazioni in-attuali

Della debolezza politica e progettuale dei partner dell’SVP

Le commemorazioni dell’Accordo De Gasperi-Gruber

Gli intellettuali embedded e l’autonomia del Mulino bianco

Giorgio Delle Donne

Politica, storia & cultura all’alba del XXI secolo

Ovvero:

Delle difficolta’ d’essere altoatesini in Sudtirolo, oggi1

Con questo contributo, che rielabora ed aggiorna la relazione svolta a Venezia il 3 aprile 1998, in occasione del convegno: L’identita’ regionale nelle Alpi, organizzato dal Dipartimento di Studi storici dell’Universita’ di Venezia, pubblicata con il titolo: L’invenzione dell’identita’ tra minoranze/maggioranze nazionali/locali in Alto Adige/Suedtirol2, e riprende testi di editoriali pubblicati sul quotidiano «Alto Adige» di Bolzano negli anni 2000-20053, vorrei proporre alcune riflessioni sul rapporto tra politica, storia e cultura in questo inizio di secolo, partendo da una breve analisi del rapporto tra storia e politica della questione altoatesina nel XX secolo, il secolo scorso, per poi analizzare come le minoranze nazionali, localmente maggioranze, abbiano portato avanti una politica molto simile a quella di cui sono state vittime, prendendo in considerazione alcuni aspetti specifici, come quello della toponomastica e della storia della storiografia della questione altoatesina. Il tutto in una spirale sempre piu’ vorticosa di progettualita’, credibilita’ e risultati elettorali dovuti alla debolezza politica e progettuale dei partner dell’SVP, che si sono manifestati anche recentemente nelle commemorazioni dell’Accordo De Gasperi-Gruber grazie all’azione di intellettuali e giornalisti embeddeded ed un’opinione pubblica disattenta e/o rassegnata, oramai consapevole di non contare assolutamente nulla in un territorio in cui le enormi risorse economiche contrastano con le miserie culturali e politiche.

Storia e politica della questione altoatesina nel XX secolo, il secolo scorso

Dopo l’annessione del 1919, il primo breve periodo di governo liberale, il ventennio fascista durante il quale lo Stato italiano tento’ inutilmente di snazionalizzare i sudtirolesi, negli anni Venti, e di alterare le caratteristiche demografiche del territorio, negli anni Trenta, favorendo l’immigrazione italiana, ed il breve, ma intenso, periodo dell'”Alpenvorland”, territorio riannesso di fatto al Reich, relativo alle tre province di Bolzano, Trento e Belluno, con atteggiamenti nei confronti dell’occupazione nazista ovviamente diversi nelle tre province, una Resistenza al nazifascismo limitata alle e’lite culturali tedesche ed italiane che non ebbe le caratteristiche che si manifestarono nelle altre regioni italiane, nel maggio del 1945 il territorio venne liberato. Vista la straordinaria divulgazione – anche se spesso volutamente stereotipata – della storia locale del periodo fascista, dedico poche righe al periodo e preferisco approfondire il periodo successivo.

Nel maggio del 1945 il governo della Nuova Italia riassume – insieme ad un Governatore militare alleato fino al dicembre del 1945 – l’amministrazione del territorio precedentemente occupato dai nazisti. I primi atti ufficiali del governo italiano ricordano la politica liberale del periodo compreso fra la fine della 1° Guerra Mondiale e l’avvento del fascismo: viene riconosciuto sostanzialmente ai sudtirolesi il diritto all’istruzione nella propria madrelingua, la facolta’ di riassumere i nomi italianizzati durante il fascismo e il diritto all’uso della lingua tedesca nelle procedure amministrative.

Fin dai primi numeri dei rispettivi organi di informazione i partiti politici italiani, raccolti nel C.L.N., ed il nuovo partito rappresentativo della minoranza etnica sudtirolese, la Suedtiroler Volkspartei, manifestarono i propri diversi obiettivi politici: il primo numero dell’«Alto Adige», del 24 maggio 1945, pubblico’ un articolo di fondo nel quale si invitavano le popolazioni alla collaborazione fra i gruppi etnici e annuncio’ come imminente la convocazione di periodiche riunioni fra i partiti italiani ed i partiti sudtirolesi per esaminare insieme i problemi piu’ importanti. Il primo numero del «Dolomiten», il 19 maggio 1945, pubblico’ la richiesta di autodecisione per il Sudtirolo, l’annessione del Sudtirolo all’Austria, l’abolizione delle leggi sulle opzioni e di tutte le altre leggi emanate durante il periodo fascista, l’instaurazione di una amministrazione democratica autonoma sotto il controllo dell’alleato e l’occupazione del territorio altoatesino da parte delle sole truppe alleate.

In seguito al fallimento delle richieste presentate tramite l’Austria ed alle trattative diplomatiche che si svolsero a Parigi, che portarono ad un accordo, firmato il 5 settembre 1946, tra i ministri degli esteri De Gasperi e Gruber – un testo molto breve nel quale si sostiene la completa uguaglianza dei diritti degli abitanti di lingua tedesca della provincia di Bolzano e dei comuni bilingui della provincia di Trento rispetto agli abitanti di lingua italiana nel quadro di speciali disposizioni destinate a salvaguardare il carattere etnico e lo sviluppo culturale ed economico del gruppo di lingua tedesca -, riprese il dibattito a livello regionale e nella Assemblea Costituente di Roma, eletta il 2 giugno 1946, nella quale non erano rappresentati i sudtirolesi. Nel Sudtirolo non ci furono le elezioni per la Costituente a causa della questione non ancora chiarita relativa alla cittadinanza degli optanti. L’Assemblea Costituente approvo’ l’articolo 116 della Costituzione, che prevedeva la Regione unica Trentino-Alto Adige. Il progetto di autonomia venne inviato ai rappresentanti dell’S.V.P. agli inizi del novembre 1947, ma solo dopo l’occupazione da parte di alcune centinaia di sudtirolesi degli uffici della prefettura di Bolzano, nel dicembre 1947, il governo di Roma decise di invitare i rappresentanti dell’S.V.P. a presentarsi per discutere davanti alla Commissione parlamentare per le autonomie speciali sui contenuti dello Statuto di Autonomia, che in ogni caso avrebbe dovuto essere emanato entro il 31 gennaio 1948, perche’ entro quella data l’Assemblea Costituente si sarebbe sciolta. Le trattative portarono al riaccorpamento della Bassa Atesina alla provincia di Bolzano ed alla costituzione nel Sudtirolo di un collegio elettorale autonomo. Lo Statuto speciale di Autonomia della Regione Trentino-Alto Adige venne approvato con Legge costituzionale il 29 gennaio 1948.

Lo Statuto di Autonomia per la Regione Trentino-Alto Adige del 1948 venne accettato dai sudtirolesi come un male minore, come uno strumento giuridico da utilizzare politicamente non essendo riusciti a vincere la battaglia per l’autodeterminazione e la riannessione all’Austria. Il gruppo degli altoatesini di lingua italiana che, dopo il crollo del fascismo, non era ancora riuscito ad esprimere una classe dirigente locale, aveva seguito passivamente le trattative per l’autonomia, portate avanti quasi esclusivamente dai rappresentanti del governo di Roma, della popolazione sudtirolese e della popolazione trentina. L’autonomia era quindi concessa alla Regione Trentino-Alto Adige, pur con la possibilita’, prevista dall’art. 14, di concedere deleghe alle due province. Nel primo consiglio regionale 32 consiglieri su 45 erano di lingua italiana. In base agli equilibri politici dell’epoca lo Statuto di Autonomia venne interpretato ed attuato con una logica regionalistica, in una regione dove due terzi degli abitanti erano di lingua italiana.

Dieci anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1955, l’Austria, con il Trattato di Stato, riacquisto’ la piena liberta’ di azione nel settore della politica estera. Come Stato-madre dei sudtirolesi e partner nell’Accordo di Parigi, l’Austria invio’ all’Italia un memorandum sulla questione sudtirolese, nel quale si denunciavano le carenze nell’attuazione dell’Accordo di Parigi e l’applicazione regionalistica dello Statuto di Autonomia. La risposta del governo italiano fu assolutamente negativa: Roma sosteneva che l’Accordo di Parigi era stato completamente attuato con l’emanazione dello Statuto di autonomia e che la questione altoatesina era una questione interna italiana.

Per un decennio, dalla meta’ degli anni Cinquanta alla meta’ degli anni Sessanta, si sviluppo’, parallelamente all’aggravarsi della situazione politica, il terrorismo sudtirolese, manifestatosi con centinaia di episodi terroristici che causarono decine di vittime. Il primo periodo del terrorismo sudtirolese ebbe come obbiettivi soprattutto i simboli dello Stato italiano e dei motivi per cui il Sudtirolo era stato annesso – strutture militari e tralicci dell’alta tensione -; fu certamente attuato da sudtirolesi e non cerco’ deliberatamente di creare delle vittime. Il secondo periodo del terrorismo sudtirolese, sviluppatosi a meta’ degli anni Sessanta, cerco’ in alcune occasioni deliberatamente di creare delle stragi, colpi’ anche abitazioni civili di italiani, e probabilmente vide l’intervento dei servizi segreti internazionali.

Alla fine degli anni Cinquanta l’S.V.P. accuso’ lo Stato italiano di favorire una costante immigrazione incentivando il settore dell’edilizia agevolata, all’epoca di competenza statale e comunale. Nel 1957 il Ministro dei Lavori Pubblici comunico’ al sindaco di Bolzano lo stanziamento di 2,5 miliardi di lire per la costruzione di un nuovo quartiere di Bolzano dotato di 5.000 vani. Nel clima di tensione dell’epoca i sudtirolesi paragonarono questo programma a quello di industrializzazione annunciato e attuato negli anni Trenta dal fascismo allo scopo di italianizzare il Sudtirolo, ed organizzarono a Castel Firmiano una manifestazione alla quale presero parte 35.000 sudtirolesi che manifestarono con lo slogan: Los von Trient, via da Trento, che significava la richiesta di un’autonomia separata per la Provincia di Bolzano. Nel 1959 l’S.V.P. ritiro’ la propria delegazione nella Giunta Regionale di Trento.

L’Austria in seguito chiese di inserire all’ordine del giorno dell’assemblea generale dell’O.N.U. la discussione relativa alla questione altoatesina, che si svolse nel 1960 e nel 1961. La risoluzione approvata dall’assemblea delle Nazioni Unite invitava i due paesi contendenti a riprendere i negoziati col proposito di trovare una soluzione a tutte le divergenze relative all’applicazione dell’Accordo di Parigi. Lo Stato italiano aveva cercato di evitare la discussione nella speciale Commissione politica delle Nazioni Unite, preferendo una trattazione nella Commissione giuridica.

La notte del Sacro Cuore, l’11 giugno del 1961, vennero attuati decine di attentati terroristici che portarono la questione altoatesina al centro della discussione nell’opinione pubblica nazionale ed internazionale. In seguito decine di sudtirolesi vennero arrestati, ed alcuni sostennero di essere stati torturati in carcere.

Nel 1961 venne costituita la Commissione dei 19, con l’incarico di elaborare un pacchetto di proposte per la risoluzione politica della questione. La relazione conclusiva della Commissione dei 19, consegnata nell’aprile del 1964, costitui’ la piattaforma per le successive trattative diplomatiche che si svilupparono negli anni successivi e che portarono, nel 1969, all’approvazione del pacchetto di proposte da parte del congresso dell’S.V.P., con 583 voti favorevoli, 492 contrari, 14 astensioni, 14 schede nulle.

Dopo l’approvazione del pacchetto da parte del congresso dell’S.V.P. il Parlamento italiano approvo’ l’accordo con una larga maggioranza, mentre il Parlamento austriaco lo approvo’ con 83 voti favorevoli e 79 contrari. Si arrivo’ quindi alla elaborazione di un nuovo Statuto di Autonomia che entro’ in vigore il 20 gennaio 1972.

Per l’emanazione delle norme di attuazione relative al nuovo Statuto di Autonomia, vennero costituite la Commissione dei Dodici e la Commissione dei Sei: la prima competente per l’elaborazione delle norme riguardanti la Regione e la seconda competente per l’elaborazione delle norme riguardanti la Provincia di Bolzano. Entro 2 anni le commissioni avrebbero dovuto emanare le norme di attuazione, ma il contenzioso si rivelo’ piu’ complesso del previsto, le commissioni si trasformarono in sede di contrattazione politica e i lavori non si sono ancora conclusi. Tra le norme di attuazione emanate quelle che probabilmente hanno creato maggiori problemi, soprattutto ma non esclusivamente al gruppo linguistico italiano dell’Alto Adige, riguardano la suddivisione proporzionale dei posti di lavoro del pubblico impiego e di tutti i finanziamenti relativi ad attivita’ sociali in Alto Adige e l’obbligo della conoscenza delle lingue italiana e tedesca per l’accesso all’impiego pubblico. Nel primo caso la riserva di 7/10 dei posti dell’impiego pubblico ai sudtirolesi ha creato notevoli problemi occupazionali a tutti quegli italiani che erano riusciti fino ad allora a garantirsi l’accesso al pubblico impiego. Vi e’ inoltre da sottolineare che, soprattutto nel primo periodo di applicazione della proporzionale, pochi sudtirolesi si dimostrarono interessati al posto di lavoro pubblico, determinando una situazione paradossale: pochi sudtirolesi presentavano richiesta di assunzione nei concorsi che riservavano loro molti posti, mentre al contrario molti altoatesini presentavano domanda per partecipare a concorsi che riservavano loro pochi posti. Discorso analogo si potrebbe svolgere per quanto riguarda l’accesso all’edilizia popolare, soprattutto nel capoluogo. Anche l’applicazione dell’obbligo della conoscenza delle due lingue per l’accesso al pubblico impiego si rivelo’, nei primi anni della sua applicazione, un grosso problema per gli italiani dell’Alto Adige, anche per le nuove generazioni nate in Alto Adige, perche’ la scuola non aveva consentito un apprendimento della seconda lingua, la lingua tedesca, tale da consentire il superamento degli esami di bilinguismo, mentre il gruppo di lingua tedesca aveva mediamente, a parita’ di condizioni socio-culturali, una conoscenza della seconda lingua, l’italiano, nettamente superiore rispetto agli italiani.

In generale sembro’ prevalere negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta una concezione ed una interpretazione del nuovo Statuto di Autonomia che non lo considerava uno strumento territoriale, relativo ai tre gruppi linguistici presenti nella provincia, ma una sorta di risarcimento dei danni arrecati dallo Stato italiano ai sudtirolesi con la politica attuata nel ventennio fascista e nel periodo del primo Statuto di autonomia. Il passaggio di competenze dello Stato alla Regione ed il successivo passaggio di competenze dalla Regione alle due Province determino’ ovviamente la formazione di ceti politici ed amministrativi maggiormente legati al territorio. Mentre il gruppo di lingua tedesca poteva contare su una organizzazione politica e sociale diffusa capillarmente nel territorio, che rapidamente sfrutto’ le opportunita’ che il nuovo Statuto di autonomia concedeva alla Provincia Autonoma di Bolzano, il gruppo italiano si trovo’ improvvisamente privo di molti dei legami che lo collegavano allo Stato italiano o alla Regione Trentino-Alto Adige, ancora una volta nell’incapacita’ di elaborare una politica sinceramente autonomista e democratica.

Negli anni Ottanta l’autonomia provinciale sancita dal nuovo Statuto e’ entrata pienamente a regime, ma si sono manifestati anche i limiti dell’applicazione dello Statuto. Cosi’ come nel primo Statuto di autonomia l’applicazione restrittiva dell’art. 14 porto’ inevitabilmente ad una crisi politica, anche l’applicazione rigida, esclusivamente matematica, dell’art. 15 del nuovo Statuto, che prevede l’utilizzo degli stanziamenti destinati a scopi assistenziali, sociali e culturali in proporzione alla consistenza dei gruppi linguistici con riferimento al bisogno dei gruppi, ha creato notevoli problemi ed una sensazione di disagio sempre piu’ diffuso tra il gruppo italiano dell’Alto Adige. La pubblicazione dei risultati del censimento del 1981, che prevedeva anche una dichiarazione di appartenenza etnica, ha dimostrato un consistente calo del gruppo di lingua italiana dall’Alto Adige, confermato anche dai dati dei successivi censimenti, del 1991 e nel 2001. Tra i diversi motivi che hanno portato a questo oggettivo calo, oltre a un minore tasso di natalita’ sociologicamente determinato dalla urbanizzazione del gruppo italiano dell’Alto Adige, vi e’ da evidenziare un notevole flusso migratorio verso le altre regioni italiane e un consistente fenomeno di apostasia etnica da parte di italiani, che, per varie ragioni, hanno preferito dichiararsi di lingua tedesca, o di persone che non potevano ritenersi ne’ italiane ne’ tedesche, appartenenti alle sempre piu’ numerose famiglie mistilingui, non riconosciute dallo Statuto di autonomia ed obbligate ad aggregarsi ad uno dei tre gruppi riconosciuti, che nella maggior parte dei casi frequentano le scuole di lingua tedesca e ai censimenti si dichiarano appartenenti al gruppo di lingua tedesca. Anche per questi motivi, accompagnati alla mancanza di conoscenza della seconda lingua, della storia e delle caratteristiche del territorio, alla perdita dei privilegi precedentemente goduti, il disagio degli italiani dell’Alto Adige si e’ progressivamente trasformato, contemporaneamente alla piena attuazione del nuovo Statuto di Autonomia, in forme di vero e proprio nazionalismo, il che spesso impedisce il pieno utilizzo delle notevoli potenzialita’ di questa terra date dalla natura plurietnica del territorio, dalla collocazione geografica e dallo Statuto di Autonomia, accentuate dall’enorme ricchezza statutariamente prevista per l’Alto Adige e, soprattutto, dalla possibilita’ di realizzare delle leggi che potrebbero trasformare l’Alto Adige-Suedtirol in un modello di tutela delle minoranze, nazionali e locali, autonomia e democrazia.

L’emanazione da parte austriaca della Quietanza liberatoria, nel 1992, non ha di fatto modificato la situazione, ed anche se formalmente la vertenza internazionale si puo’ dire conclusa, rimangono aperti molti problemi determinati storicamente, che una conoscenza della storia che facesse tesoro degli insegnamenti potrebbe eliminare.

L’applicazione dell’Accordo di Madrid del 1980, che prevede la creazione di consorzi di regioni transfrontaliere per la risoluzione di problemi comuni, consentirebbe di superare i confini nazionali e la sperimentazione di nuove realta’ che potrebbero essere caratterizzate dal federalismo, dalla democrazia e dall’autogoverno delle popolazioni, ma anche dal segno opposto di una nuova prevaricazione da parte dei gruppi numericamente piu’ numerosi o di quelli che si ritengono storicamente caratterizzati da un maggiore diritto di cittadinanza a causa di un piu’ antico insediamento nel territorio. Questa logica, che ha sempre portato nefaste conseguenze, all’inizio del terzo millennio risulta sempre meno accettabile, non solamente per le pericolose conseguenze che puo’ determinare, ma anche sulla base della semplice analisi dei dati quantitativi relativi ai movimenti migratori che sembrano individuare nel multiculturalismo la caratteristica inevitabile di ogni regione europea.

Patrie piccole & nazionalismi grandi

Nella raccolta di articoli di Fernando Savater Contro le patrie4, l’autore, che si definisce un anarchico moderato, gia’ militante dei gruppi della sinistra radicale degli anni Settanta, costantemente minacciato dai militanti dell’ETA per le sue critiche ai movimenti indipendentisti spagnoli che praticano anche la violenza per rivendicare l’autodeterminazione e non si dimostrano particolarmente sensibili nei confronti degli abitanti dei “loro” territori di diversa origine, ricorda che all’epoca dell’antifranchismo ogni movimento di contestazione era ingenuamente considerato antifranchista-antifascista e questo e’ stato “(…) l’origine del prestigio di cui tuttora godono i nazionalismi tra un certo pubblico di sinistra (…), e l’alibi sfruttato alla perfezione per costruire a sua volta un complesso dispositivo dove ai legittimi – anche se pesantissimi – meccanismi d’affermazione, di propaganda e di seduzione, si aggiungono quelli piu’ surrettizi della repressione ed esclusione, della produzione nei loro territori di autentiche carenze democratiche e “discriminazioni positive” (…). Questa magnifica struttura comprende la formazione e il mantenimento di una sentimentalita’ (…) che a una roboante e insopportabilmente assillante affermazione di se’ associa un odio viscerale contro il facile nemico causa di tutti i mali passati e futuri e che risponde al comodo nome di Spagna” (lo Stato nazionale, n.d.a.).

Dopo avere ricordato che il nazionalismo statale non deve necessariamente essere combattuto con altre forme di nazionalismo, magari di scala ridotta, ma da una cultura politica che accetti, apprezzi e valorizzi le differenze, anche nazionali, all’interno di un territorio, Savater ricorda che spesso le minoranze nazionali producono forme di lotta e cultura molto simili a quelle prodotte nei secoli scorsi dagli Stati nazionali per la loro affermazione, con una sostanziale differenza: mentre nel XXI secolo tutti siamo vaccinati rispetto ai danni che i nazionalismi statali hanno prodotto nei secoli scorsi e siamo consapevoli delle strumentalizzazioni, anche di classe, dei sentimenti nazionali, i sentimenti nazionali-locali, delle “piccole patrie” spesso sembrano essere naturali, cosi’ come sembravano naturali quelli nazionali-statali nei secoli scorsi. E, citando lo storico Hobsbawm, ma potremmo aggiungere Isnenghi, Lanaro e Rusconi nel panorama italiano, Savater ricorda che la liberta’ ed il pluralismo culturale sono meglio garantiti in grandi Stati democratici che valorizzano le diversita’ piuttosto che in piccoli Stati nati dalla rivendicazione etnica che hanno sempre combattuto ogni forma di “contaminazione etnica” in nome della difesa dell’identita’ culturale, a volte motivata dalla presunta necessita’ di riequilibrare torti precedentemente subiti: “Non e’ la stessa cosa rendersi indipendenti dallo Stato e fondare uno Stato indipendente. Non si curano i mali dello Stato facendone uno piu’ piccolino e poi mettendogli sopra il cappello.”

Dopo avere ricordato le differenze tra la nazione, con ambiti di riferimenti culturali, e la patria, con ambiti di riferimenti territoriali, e tra la nazionalita’ e la cittadinanza, con ambiti di riferimenti relativi ai diritti, Savater ricorda che il sentimento nazionale puo’ servire per emancipare una comunita’ dallo sfruttamento straniero, ma puo’ anche sviare l’attenzione, soprattutto delle classi popolari, dalle contraddizioni piu’ importanti, cosi’ come puo’ sottoporre le masse a nuove forme di oppressione, magari da parte di leader carismatici populisti e potentissimi che, in nome della nazione, grande o piccola che sia, naturalizzano rapporti di potere.

Ma la reazione al nazionalismo non dev’essere una societa’ senza distinzioni culturali in nome del progresso: “L’internazionalismo non ha nulla a che vedere con la omogeneizzazione multinazionale e standardizzata delle differenti comunita’: perche’ e’ nazionalista tanto chi rivendica la sua differenza solo per edificare uno Stato basato su questa differenza quanto chi sostiene uno Stato per schiacciare le differenze. (…) Ciascuna nazionalita’ minoritaria che lotta per affermarsi deve contemplare entro i suoi confini anche i diritti per le proprie minoranze, che lo sono per trasformazioni storiche altrettanto lamentevoli e degne di quelle che determinarono l’oppressione della collettivita’ in lotta.”

Ma la rivendicazione di giusti diritti non puo’ alimentarsi continuamente delle ingiustizie subi’te nel passato e nelle chimere piu’ o meno belle: “Cosi’ come la sinistra non si e’ fatta pienamente democratica fino a quando non ha abbandonato il mito della rivoluzione e della dittatura del proletariato, neanche il nazionalismo basco sara’ democratico fino a quando non cessera’ di sventolare il mito del popolo oppresso, e fino a quando non distinguera’ fra diritti irrinunciabili e progetti politici. Poniamo l’esempio dell’autodeterminazione. (…) Il diritto dei popoli a decidere di se stessi non puo’ significare nella pratica che ciascuna minoranza etnica, linguistica o religiosa disponga di uno Stato indipendente, ma che ogni minoranza possa disporre della protezione delle leggi di quello Stato di cui fa parte.”

Quindi, anche se il regionalismo cresce di pari passo e conseguentemente al cosmopolitismo – ed alla globalizzazione – e lo Stato nazionale spesso viene considerato troppo piccolo per i grandi problemi della vita e troppo grande per i piccoli problemi della vita, non sara’ certamente nelle “devoluzione” alle piccole patrie, fintamente omogenee dal punto di vista etnico, dei diritti civili e dell’elaborazione delle politiche multiculturali che potremo trovare una soluzione alle complessita’ sociali, enormi negli Stati nazionali, ma non inesistenti nelle “piccole patrie”.

E l’Alto Adige/Suedtirol e’ un ottimo esempio di buona amministrazione e di autotutela delle minoranze nazionali, ma nel settore della pari dignita’ dei gruppi non ha proprio nulla da insegnare a nessuno. Non e’ il caso comunque di condividere gli allarmismi degli ex fascisti, i quali, sostenendo che l’SVP intende cacciare tutti gli italiani dall’Alto Adige, dimostrano ancora una volta che e’ il nazionalismo piu’ che l’onanismo a rendere ciechi ed idioti. L’SVP non ha alcun interesse a cacciare tutti gli altoatesini dall’Alto Adige. Una presenza ridotta di altoatesini, con dei politici italiani cosi’ assolutamente inutili, come quelli del centrosinistra, o cosi’ dannosi, come quelli del centrodestra, risulta utile e risultera’ indispensabile nei prossimi anni per motivare l’autonomia provinciale, con i suoi finanziamenti e le sue competenze, con Roma e con Bruxelles, come i ladini veri e quelli in via di costruzione del Trentino per i trentini.

La questione della toponomastica

Da sempre nelle zone di confine la storia ha visto momenti di esistenza pacifica, ma anche momenti caratterizzati da tentativi – piu’ o meno palesi, piu’ o meno riusciti – di snazionalizzazione. Uno dei terreni piu’ cari ai nazionalisti, di tutte le nazionalita’, e’ sempre stato quello della toponomastica, quasi nel tentativo di voler cancellare in questo modo la presenza, la storia e l’identita’ dell’”altro”. Non a caso anche nella nostra storia, nella storia della nostra terra, subito dopo l’annessione il principale punto di contrasto fra il Governatore Militare, Pecori-Giraldi, in una prima fase ed il Commissario Generale Civile, Credaro, in una seconda fase, con il responsabile del Commissariato per la Lingua e Cultura in Lingua Italiana, il nazionalista Tolomei, fu proprio relativo alla toponomastica, con un durissimo scontro fra quanti, pur rappresentando lo Stato Italiano, cercarono di amministrare queste nuove terre con una logica politica rispettosa dell’identita’, della storia e delle tradizioni delle popolazioni che vi abitavano e chi, come il nazionalista Tolomei, pretendeva di cancellare l’identita’ culturale e la storia di queste popolazioni, proprio a partire dalla toponomastica. Noi sappiamo che, in una prima fase, quando a Roma governavano ancora i governi liberali, Tolomei non riusci’ a vincere la propria battaglia e dovette andarsene, ma in seguito, con l’affermazione del fascismo e della cultura nazionalista, Tolomei riusci’ ad imporre la propria logica. Come disse lo storico dell’arte Nicolo’ Rasmo, in un articolo pubblicato nel lontano 1954 sulla rivista Cultura Atesina-Kultur des Etschlandes, da lui diretta, in un articolo significativamente intitolato Toponimi e buonsenso…

“le conseguenze, astraendo dal penoso senso di ridicolo gravante non soltanto su chi progetto’ tali nomi, ma anche, e ben di piu’, su chi li accolse, li impose e li divulgo’, non mancarono di dimostrarsi controproducenti appunto nel campo della toponomastica stessa; perche’ nella massa delle denominazioni latine o italiane inventate, quelle, ed erano molte, autentiche e, come testimonianze storiche e culturali, veramente importanti, ormai spesso si perdono e rimangono cosi’ prive di efficacia e di valore per la media delle persone che in esse si imbattono. Infatti e’ piu’ logico che queste stesse persone dalla constatazione di prevalenti palesi falsi arrivino ad una conclusione generalizzante del tutto negativa e certo ingiusta.”

A noi preme, in queste sede, ricordare brevemente anche gli aspetti normativi della questione, ricordando pero’ che anche i giuristi, come gli studiosi di linguistica, gli storici, i sociologi, ecc., molto spesso hanno usato le proprie competenze in modo strumentale: basti ricordare chi, pochi anni or sono, citava documenti delle Nazioni Unite estrapolando solamente alcune frasi da contesti generali, stravolgendone completamente il significato. Per quanto riguarda la questione altoatesina, la prima fonte normativa riguardante la toponomastica, dopo l’annessione al Regno d’Italia, fu il Regio Decreto n. 800 del 29 marzo 1923, che introduceva la toponomastica italiana sulla base del Prontuario elaborato da Ettore Tolomei ed Ettore De Toni, pubblicato dalla Reale Societa’ Geografica Italiana. Durante l’occupazione nazista nell’Alpenvorland venne ripristinata la toponomastica in lingua tedesca, ma non venne mai formalmente eliminata quella in lingua italiana. E’ interessante ricordare un fatto storico sconosciuto ai piu’, relativo ai nomi delle strade della citta’ di Bolzano: durante l’Alpenvorland venne ripristinata l’odonomastica cittadina in vigore fino alla prima meta’ degli anni Venti, ma contestualmente venne lasciata in vigore l’odonomastica in lingua italiana frettolosamente mutata dopo il luglio del 1943. Dopo la guerra, l’Accordo di Parigi prevedeva, alla lettera B dell’articolo 1,

“l’uso, su di una base di parita’, della lingua tedesca e della lingua italiana nelle pubbliche amministrazioni, nei documenti ufficiali, come pure nella nomenclatura topografica bilingue”;

principio ripreso dagli articoli 11, 84 e 86 dello Statuto di Autonomia del 1948, che comunque ribadivano l’ufficialita’ della lingua italiana. Lo Statuto di Autonomia del 1972 prevede, all’articolo 8, la potesta’ per la Provincia di emanare norme legislative in materia di toponomastica,

“fermo restando l’obbligo della bilinguita’ nel territorio della provincia di Bolzano”,

mentre l’articolo 101 prevede l’uso della terminologia tedesca dopo l’accertamento preventivo ad opera della legge provinciale.

Conseguentemente al quadro legislativo risulta evidente che la legge regionale e’ competente per le denominazioni dei nuovi Comuni e per le modifiche alle denominazioni preesistenti, mentre la legge provinciale e’ competente per la rimanente toponomastica locale e per l’accertamento delle denominazioni tedesche, al fine di legittimarne l’uso da parte della Pubblica Amministrazione, anche se in realta’, essendo stati i toponimi tedeschi reintrodotti fino dal 1945, tale competenza sembra essere esercitabile soltanto per eventuali variazioni. In ogni riferimento normativo comunque e’ sempre ribadito il carattere bilingue della toponomastica ufficiale nella provincia.

Risulta infatti evidente che un eventuale impedimento legislativo nei confronti della comunita’ italiana del diritto di esprimersi nella propria lingua per identificare, secondo criteri ormai famigliari, i luoghi in cui la comunita’ si e’ sviluppata da piu’ di settant’anni, significherebbe incentivare una frattura fra la comunita’ e il territorio, creando una progressiva estraneita’ rispetto alla realta’ locale. Sara’ sicuramente il buonsenso, insieme ad una maggiore conoscenza della seconda lingua, della storia, della geografia e dell’antropologia locale – che noi tutti auspichiamo siano sempre piu’ frequentemente studiate nelle scuole, seguendo le indicazioni delle piu’ aggiornate metodologie didattiche, anche sulla base dei nuovi programmi per le scuole elementari e medie emanati dal Consiglio provinciale -, che renderanno inevitabile, nel corso del tempo, l’uso della lingua tedesca per quanto riguarda la microtoponomastica, cosi’ immediatamente legata alla storia, alla geografia ed all’antropologia. Riteniamo che questo tipo di scelte politiche, relative a politiche culturali, rappresentino la strada da seguire per fare in modo che il terreno della toponomastica si trasformi, nel corso del tempo, da un terreno minato – minato abilmente dai nazionalisti di entrambe le parti – in un terreno di confronto e di studio per il reciproco arricchimento di tutti coloro i quali intendono vivere pacificamente in questo territorio.

Purtroppo nulla e’ stato fatto nel campo culturale e scolastico affinche’ la questione della toponomastica venga studiata anche dal punto di vista storico, per vedere quando e come sono stati coniati e trasformati i toponimi; linguistico, per vedere le stratificazioni contenute nei toponimi; geografico, per vedere come la toponomastica possa essere un formidabile strumento per verificare i processi di antropizzazione; sociologico-antropologico, per vedere come la toponomastica possa costituire un elemento costitutivo delle identita’ collettive.

E’ rimasto un problema esclusivamente politico e, a parte i progetti dei Verdi e di Alleanza Nazionale, che propongono di limitare l’intervento legislativo ai toponimi di interesse pubblico ed evita l’assurda differenziazione tra macro e microtoponomastica, la questione viene proposta dai partiti tedeschi con spirito revanchista camuffato da rigore storico o filologico e dai relitti dei partiti italiani come merce di scambio.

Alcuni dati sulla situazione delle scuole in Alto Adige

Il sistema scolastico in Alto Adige non solo non e’ riuscito ad affrontare con successo il problema dell’insegnamento della seconda lingua, della storia e delle particolari caratteristiche sociali del territorio, ma negli ultimi anni evidenzia un trend che probabilmente impedira’ che anche in futuro questi obiettivi siano raggiunti, soprattutto nelle scuole di lingua italiana.

In base ai dati relativi all’anno scolastico 2004/2005 risulta che il 58,8% degli alunni immigrati e’ iscritto alle scuole italiane; il 39,7% alle scuole tedesche; l’1,5% alle scuole ladine.

Togliendo dal numero degli iscritti gli alunni stranieri, risulta che nelle scuole italiane ci sono 15.300 iscritti (16.800-1.500); nelle scuole tedesche ci sono 55.000 iscritti (56.000-1.000); nelle scuole ladine ci sono 2.950 iscritti (3.000-50).

Tolti gli stranieri, gli alunni iscritti alle scuole italiane sono il 21% della popolazione scolastica; gli alunni iscritti alle scuole tedesche sono il 75% della popolazione scolastica; gli alunni iscritti alle scuole ladine sono il 4% della popolazione scolastica.

Dopo la pubblicazione dei dati del censimento etnico del 2001, qualcuno aveva fatto notare entusiasticamente che il temuto crollo degli altoatesini non si era verificato, visto che nel 1961 erano il 34,3%, nel 1971 il 33,3%, nel 1981 il 28,7%, nel 1991 il 26,5% e nel 2001 il 24,5%. “Abbiamo tenuto saldamente, siamo nel calo fisiologico” dicevano politici che non hanno ben capito che nulla di cio’ che avviene socialmente e’ naturale, come diceva Brecht. Ma da anni gli iscritti nelle scuole italiane, tolti gli stranieri, sono almeno il 4% in meno rispetto alla percentuale degli italiani dichiarati al censimento, mentre nelle scuole tedesche accade il fenomeno opposto.

Le spiegazioni possibili sono piu’ d’una, e probabilmente interagiscono tra di loro.

La maggior parte dei “mistilingue”, non potendosi dichiarare tali e non avendo un sistema scolastico ad hoc, si iscrivono nelle scuole di lingua tedesca e si dichiarano tedeschi ai censimenti, visto il meccanismo perverso della proporzionale, che da trent’anni ogni dieci anni quantifica i gruppi e concede chance di vita (risorse economiche e occupazionali) maggiori a chi sta sempre meglio e minori a chi sta sempre peggio. Solamente gli alunni stranieri, che evidentemente non vengono considerati una risorsa, non vengono suddivisi in base alla proporzionale.

Molti italiani di periferia, pensando al futuro dei loro figli, li iscrivono nelle scuole tedesche.

Gli italiani che se lo possono permettere iscrivono i loro figli nelle scuole private cattoliche, autorizzate da anni a praticare l’insegnamento veicolare della seconda lingua, cosi’ osteggiato nelle scuole pubbliche dall’SVP, e quelli che si possono permettere un budget maggiore investono in baby-sitter sudtirolesi-doc e crescono i figli bilingui in famiglie monolingui, iscrivendo i propri figli nelle scuole tedesche. Accade anche il contrario, ma in misura nettamente inferiore.

Altro elemento e’ costituito dalla struttura per classi d’eta’ delle popolazioni, rappresentata dalla “piramide della popolazione”, quell’istogramma a barre orizzontali che rappresenta la popolazione per fasce d’eta’. Normalmente le fasce d’eta’ piu’ basse sono le piu’ consistenti, e quindi l’istogramma assume una forma piramidale. Nelle societa’ avanzate e/o urbane il tasso di fecondita’ diminuisce vistosamente, e la struttura dell’istogramma somiglia ad un rettangolo. Nelle societa’ “problematiche”, dove per svariati motivi sicuramente non naturali (ricordate Brecht?) lo sviluppo demografico e’ sempre minore, l’istogramma assume una forma di piramide rovesciata, dove le barre piu’ lunghe corrispondono alle fasce d’eta’ piu’ alte. Ed e’ normalmente considerato dai demografi un importante elemento indicatore sulle prospettive di sviluppo di una popolazione. Nella citta’ di Bolzano, ad esempio, stando ai dati del “Piano sociale” commissionato dal Comune, nel quartiere Europa-Novacella i giovani fino ai 24 anni sono il 18,7% della popolazione, mentre gli ultracinquantacinquenni sono il 39,7%, e per ogni residente d’eta’ inferiore ai 14 anni ve ne sono 2 d’eta’ superiore ai 65. Ma nei centri minori la situazione e’ diversa. In Pusteria, nell’alta Venosta e nell’alta Val d’Isarco le scuole italiane rimangono aperte soprattutto per la presenza di stranieri.

In Lombardia ed in Liguria si discute pubblicamente della possibilita’ di stabilire delle quote di presenza degli stranieri nelle scuole, anche per evitare che questa presenza, cosi’ forte nei quartieri poveri e degradati, inneschi anche razzismo tra chi ha gia’ numerosi altri problemi. Anche in Alto Adige, soprattutto a Bolzano, c’e’ il rischio che le scuole italiane – che dopo 30 anni di secondo Statuto non hanno ancora raggiunto l’obbiettivo di un buon livello di insegnamento della seconda lingua – in futuro siano frequentate soprattutto dai figli degli stranieri e degli altoatesini che non hanno la possibilita’ di scegliere per i propri figli altre strade, aggiungendo nuovo razzismo nei confronti degli stranieri al vecchio nazionalismo nei confronti dei sudtirolesi. Razzismo e nazionalismo che vanno sicuramente combattuti, ma proprio per questo anche capiti e prevenuti. Chi si vanta della presenza cosi’ numerosa dei bambini stranieri nelle scuole italiane, facendo di necessita’ virtu’, senza rendersi volutamente conto che da anni le iscrizioni alle scuole italiane sono almeno del 4% inferiori rispetto alle dichiarazioni al censimento, potrebbe forse approfittare di questa situazione e dell’autonomia scolastica per progettare un sistema scolastico dove ognuno ed ogni gruppo possa sentirsi realmente garantito nella/e propria/e cultura/e ed interessato alle diverse culture. Difficile da farsi con chi culturalmente, politicamente e statutariamente, ha sempre lottato contro ogni “ibridazione e contaminazione” etnica, nega l’esistenza dei mistilingue e minaccia di ricorrere a Vienna per difendere la presunta sacralita’ dell’articolo 19 dello Statuto ogniqualvolta si propongono nuove metodologie didattiche. Ma allora sarebbe meglio starsene elegantemente zitti o fingere di parlare d’altro.

A queste lapalissiane considerazioni l’assessora “competente” ha fatto notare che la presenza degli stranieri e’ da considerarsi una risorsa e non un problema. Questione di punti di vista, ovviamente. C’e’ un metodo semplice ma efficace per vedere se questi sono una risorsa: basta vedere se l’SVP chiede l’applicazione rigida della proporzionale sugli stranieri iscritti nelle scuole, come solitamente fa quando si tratta di spartirsi le risorse vere, le chanche di vita: i finanziamenti, i posti di lavoro, le case. Ma visto che non solamente non chiede l’applicazione della proporzionale, ma lascia che la maggior parte di questi vada nelle scuole italiane, siamo portati a pensare che questi siano un problema sociale che va affrontato puntando sicuramente sull’integrazione e non sull’esclusione o la ghettizzazione, ma accompagnando queste belle dichiarazioni da robusti stanziamenti di risorse umane ed economiche nel settore della scuola.

La storia della storiografia della questione altoatesina

Ne’ il Primo statuto, che nella sua attuazione pratica ha negato le autonomie provinciali e di fatto non ha concesso il pieno autogoverno delle minoranze nazionali, ne’ il Secondo statuto, che nella sua attuazione pratica ha negato le autonomie comunali e non ha concesso la piena e paritaria compartecipazione degli altoatesini alla gestione dell’autonomia provinciale dell’Alto Adige, hanno creato i presupposti per quel sentimento di solidarieta’, senso civico di appartenenza e lealismo istituzionale che dovrebbero garantire i presupposti per un pieno utilizzo, su un piano di pari dignita’, delle potenzialita’ dell’autonomia. Le applicazioni quantomeno centraliste a livello regionale e provinciale, ed a volte revansciste, hanno purtroppo confermato la famosa affermazione di Mussolini secondo il quale le situazioni ed i problemi delle minoranze non si possono risolvere, ma solamente capovolgere.

A livello politico oramai da vent’anni la maggioranza dell’elettorato altoatesino vota a destra, per un partito etnico, da sempre nemico della Provincia, mentre da sessant’anni la maggior parte dei sudtirolesi vota a destra, per un partito etnico, da sempre nemico dello Stato, la qual cosa sarebbe sufficiente per smentire i corifei dell’autonomia, con l’ulteriore aggravante che il partito piu’ votato dagli altoatesini e’ sempre all’opposizione, mentre l’SVP sceglie i rappresentati italiani da cooptare in giunta.

Forse sarebbe il caso di imparare dalla storia che non e’ possibile chiedere autonomia dallo Stato senza concederla anche alle Province, chiedere autonomia dalla Regione senza concederla anche ai Comuni, chiedere che le minoranze siano considerate qualcosa di piu’ di un semplice fattore folcloristico e, una volta ottenuta l’autonomia in quanto minoranza, rivendicare solamente i rapporti numerici quando si e’ sicuri di essere maggioranza.

Tutte queste vicende, cosi’ sommariamente ricordate, hanno creato una situazione particolare, che puo’ permetterci di svolgere alcune considerazioni sull’uso pubblico della storia e la formazione delle identita’ collettive di maggioranza/minoranza.

E’ infatti evidente che la storia del XX secolo, cosi’ fortemente caratterizzata da repressione etnica, fortunatamente e/o sfortunatamente da parte di entrambe le parti in causa, che non hanno lesinato reciprocamente la violenza, se non altro a livello di continuo tentativo di assimilazione, ha determinato una situazione di reciproca sfiducia, che sfocia in alcuni periodi in vero e proprio odio etnico, continuamente alimentato dalle elite’ politiche e dai mass-media locali, anche se recentemente in parte sopito dai cospicui finanziamenti che consentono al Sudtirolo, e conseguentemente al Trentino, di gestire realmente le competenze autonomistiche con una disponibilita’ di mezzi che non ha eguali in altre parti d’Italia. I mass-media giocano un ruolo politico importantissimo nella nostra terra nella costruzione del cosiddetto “senso comune storico”, spesso alimentando continuamente pregiudizi, diffidenza od odio etnico, ed anche la ricerca storiografica si muove spesso ancora in questa direzione, cercando continuamente di addossare all’altro gruppo etnico le responsabilita’ di alcuni episodi storici (ad esempio le opzioni) o ricercando continuamente nella storia motivazioni per una sopraffazione nel presente, come attualmente avviene nel delicato settore della toponomastica, che vede continue richieste di eliminazione della toponomastica di lingua italiana5.

Il recente interesse per la storia della storiografia e’ senz’altro dovuto sia agli innovativi contributi riguardanti gli aspetti metodologici delle ricerche di storia locale, sia agli altrettanto importanti aspetti sociali relativi allo studio della storia locale ed al suo uso pubblico, che comporta la formazione di nuove identita’, cosi’ importanti in questo periodo di continua ricerca di piccole patrie e proposte di etnoregionalismo che intendono contrapporsi al fenomeno della globalizzazione, riproducendo spesso su piccola scala le analisi che Hobsbawm e Ranger hanno elaborato per quanto riguarda l’invenzione delle tradizioni relative alle identita’ nazionali del secolo scorso6.

Solamente se la storiografia di questa terra si trasformera’ da strumento ideologico a disciplina civicamente formativa potremmo uscire da questa logica, senza proporre la patetica ricerca di storie condivise, ma considerando oramai la storia del XX secolo come la storia del secolo scorso.

In Alto Adige il rapporto dei gruppi con il proprio passato e’ assai diversificato, e vede il gruppo sudtirolese estremamente radicato in questo territorio, con una cultura storica in cui alcuni momenti luminosi (la lotta vandeana di Andreas Hofer, la resistenza ai violenti e goffi tentativi italiani di snazionalizzazione, ecc.) si alternano a veri e propri buchi neri riguardanti alcuni periodi ed alcune tematiche storiografiche volutamente ignorati, determinando delle radici estremamente robuste ma estremamente rigide. Nel gruppo altoatesino invece la conoscenza del proprio comune passato, che non raggiunge neppure il secolo di vita, e’ estremamente limitata, cosi’ come limitata e’ la conoscenza della geografia e delle caratteristiche sociologiche del territorio, nonche’ della lingua parlata dalla maggior parte della popolazione, determinando quindi delle radici estremamente esili.

I grossi sconvolgimenti nel settore della struttura demografica – dovuti ad una inevitabile immigrazione sempre piu’ consistente -, nel settore dell’economia – dovuti a pesanti ristrutturazioni – ed altri fenomeni sociologici non potranno sicuramente essere affrontati bene ne’ da parte di chi ha radici troppo robuste e rigide ne’ da parte di chi ha radici troppo esili.

Nei mass-media le analisi storiche sono sempre fortemente condizionate, oltre che dai fattori di spazio e di tempo, anche dalla situazione politica contingente, e non sembra possibile analizzare le vicende storiche, soprattutto quelle del XX secolo, in maniera serena, a prescindere dalla situazione politica presente. Basti pensare al problema della toponomastica, che potrebbe essere un interessante terreno di studio del rapporto tra storia, geografia e linguistica, se non fosse pero’ fortemente condizionato dalle proposte politiche di eliminazione della toponomastica italiana, motivata dal fatto di essere stata introdotta in epoca fascista, senza tenere in considerazione i problemi che verrebbero a crearsi per chi, in Alto Adige da ottant’anni e non necessariamente fascista, si vedrebbe togliere improvvisamente la possibilita’ di definire nella propria lingua il territorio in cui abita. Discorso analogo si potrebbe fare per quanto riguarda i monumenti nazionali, se non si fosse sempre sottoposti alle pressioni di chi, in entrambi i gruppi, propone di eliminare i monumenti dell’altro gruppo, per riportare la situazione del territorio ad un mitico anno zero primordiale, dove esisteva solamente un popolo… e tutti si volevano bene. Anche da questo punto di vista la situazione altoatesina non risulta un modello di convivenza, ma risulta essere un modello per gli etnofederalisti, che rivendicano un’autonomia da uno Stato centrale per un territorio abitato esclusivamente da una popolazione e, per meglio rivendicare questo diritto, si ricreano una storia mitica caratterizzata da simbologie elementari.

Per quanto riguarda la didattica della storia locale ricordiamo che negli ultimi vent’anni sono stati prodotti materiali interessanti da questo punto di vista e che si e’ ormai usciti dal ghetto della storia locale-localistica, con produzioni di ottimo livello che hanno creato anche la possibilita’ di una didattica piu’ motivata e piu’ democratica, in quanto verificabile dagli studenti, che possono andare a fare direttamente ricerca nelle biblioteche e negli archivi e possono simulare momenti di ricerca nei laboratori di didattica della storia7.

Considerazioni in-attuali

Quando si parla di valori simbolici ed identita’, anche e soprattutto nella prospettiva etnica, tutti sono concordi nel confinarla nel limbo dell’irrazionalita’, generico contenitore di problemi insoluti e forse irrisolvibili, ma, come scrive l’antropologo Carlo Tullio-Altan8, le diverse prospettive relative a diversi casi di studio concordano nell’affermare che alcuni elementi costitutivi dell’identita’ etnica sono comunque presenti:

l’epos, la trasfigurazione simbolica della memoria storica, in quanto celebrazione comune del passato; l’ethos, la sacralizzazione di norme ed istituzioni di origine civile e religiosa, sulle cui basi si costruisce la socialita’ del gruppo; il logos, attraverso cui passa la comunicazione sociale; il genos, la trasfigurazione dei rapporti di parentela; il topos, l’immagine simbolica della patria e del territorio.

Dando per scontato il rifiuto del nazionalismo – il male peggiore che possa caratterizzare un territorio plurilingue, e quindi oramai tutti i territori -, che gerarchizzando diverse culture sostiene la naturale superiorita’ di una/alcune cultura/e sull’altra/altre, ritengo che paradossalmente anche i teorici del multiculturalismo ingenuo, pur affermando la giusta necessita’ di creare le premesse per lo sviluppo di tutte le etnie, compiano spesso l’errore di considerare le etnie o le nazionalita’ dei dati naturali e non, come invece sono, delle potenti ed importantissime costruzioni culturali ottocentesche e novecentesche, dagli esiti statalmente/nazionalmente diversi, pur con dinamiche simili. E’ sbagliato infatti considerare il meticciato un destino futuro dell’umanita’ e le rigide identita’ nazionali il passato ed il presente di essa, cosi’ come e’ profondamente sbagliato considerare le identita’ nazionali frutto di operazioni di politica culturale e le identita’ locali un fenomeno naturale9. Il meticciato e’ sempre stata una caratteristica dell’umanita’, che ha avuto caratteristiche quantitative e qualitative sempre diverse, e le identita’ nazionali sono un fenomeno politico e culturale degli ultimi due secoli che ha avuto un successo straordinario e questo induce molti a leggere anche la storia dei secoli precedenti alla luce degli esiti successivi10. Occorre quindi storicizzare e superare il nazionalismo, non naturalizzare le etnie.

Pur non essendo un fenomeno naturale, il sentimento nazionale ha avuto un successo ed una forza enorme negli ultimi due secoli, anche tra le persone che non avevano “interessi nazionali” da difendere. Non a caso furono i socialdemocratici dell’Impero plurinazionale austro-ungarico ad affrontare teoricamente le questioni legate al rapporto tra stato e nazionalita’, superando la concezione naturalistica della nazione come comunita’ di destino, di carattere, di luogo e di cultura, ma anche il principio di autodeterminazione dei popoli, visto che gia’ alla fine dell’Ottocento non esistevano in Europa territori omogenei dal punto di vista nazionale e, consapevoli che nei diversi territori dell’Impero le stesse nazionalita’ erano a volte maggioranza/dominante ed a volte minoranza/dominata, auspicavano il principio di autonomia personale oltre che di gruppo e territoriale.

Le culture nazionali non erano e non sono semplicemente prodotti culturali, ma sono diventate lo sfondo “naturale” delle diverse esistenze e delle diverse produzioni culturali e la loro conservazione e valorizzazione, che non ha niente a che vedere con il nazionalismo, e’ sempre stata considerata importante da chi sostiene che le diversita’ siano una ricchezza e lottava cent’anni orsono contro l’imperialismo politico ed ai giorni nostri contro l’imperialismo culturale, tanto piu’ evidente dopo la fine del cosiddetto “comunismo reale” che sembra avere spianato la strada al “pensiero unico”.

Nel mondo sempre piu’ globalizzato insieme all’insicurezza cresce il desiderio di comunita’, soprattutto etniche tra “identici”, ed anche il modello del Melting Pot americano, visto per decenni come superamento anche positivo delle identita’ nazionali e delle loro esasperazioni, sembra ora superato dal modello dell’insalatiera etnica, il territorio che unisce persone con caratteristiche culturali anche molto diverse, purche’ tutti siano consapevoli della storicita’ e relativa ibridazione di ogni identita’ culturale e della possibilita’ e necessita’ di avere una vasta gamma di fattori identitari, molteplici, concentrici ed elastici. Quindi progressivamente cresce la richiesta di rivendicazione del diritto alla differenza, ma anche del diritto all’indifferenza, nella consapevolezza della relativita’ di ogni elemento identitario.

In Alto Adige/Suedtirol negli ultimi cento anni la questione dell’integrazione/assimilazione culturale e’ sempre stata fortemente caratterizzata dagli esiti della “Grande storia”, quella che ha spostato i confini, oltre che dalla storia quotidiana, fatta di movimenti migratori, matrimoni, contatti.

Gia’ alla fine dell’Ottocento la presenza di nuclei di tedeschi nel Trentino e di nuclei di italiani in Alto Adige consentiva ai fanatici nazionalisti di entrambi i fronti di rivendicare l’assoluta tedeschita’ o italianita’ della popolazione, ma anche della flora e della fauna, fino a Borghetto o fino al Brennero, simboli tangibili, “naturali”, delle nazionalita’.

Enorme e’ la pubblicistica degli ultimi decenni relativa a queste tematiche, un tempo riguardanti soprattutto gli Stati Uniti ed ora riguardanti anche i paesi che una volta erano territori di emigrazione ed ora sono diventati territori di immigrazione.

Un classico della sociologia, e’ “Una nazione di estranei” di Vance Packard11, l’autore de “I persuasori occulti” e di altri saggi che negli anni Sessanta hanno analizzato il sistema della comunicazione di massa. Ambientato negli Stati Uniti, paese simbolo della mobilita’ territoriale e della precarieta’ sociale – dove mediamente un uomo cambia 14 volte la residenza nel corso della propria esistenza ed ogni anno il 20% della popolazione si trasferisce -, e’ stato pubblicato nel 1972, ma, come diceva mio nonno, “e’ inutile andare in America per vedere com’e’, tanto sara’ l’America che, tra vent’anni, verra’ qui”, e puo’ risultare utile per vedere come si formano le identita’ territoriali in comunita’ che non hanno radici profonde e manifestano sindromi da sradicamento, nomadismo territoriale e professionale, isolamento individuale, perdita o assenza di senso comunitario. Packard individua cinque forme di sradicamento: quella di coloro che si trasferiscono in luoghi sconosciuti; quella di coloro che, pur rimanendo nello stesso luogo, appartengono a comunita’ in via di disgregazione; quella di chi vive in quartieri di recente costruzione, con rapporti di vicinato anonimi; quella di chi vive condizionato dai rapporti e dagli orari professionali; quella di chi sfascia le unita’ famigliari, primo nucleo identitario. Nei movimenti migratori si spostano solitamente le fasce piu’ alte e piu’ basse della popolazione: emigra chi ha una posizione professionale che gli da’ un mercato del lavoro molto ampio o chi non ha nulla da perdere. La classe operaia e quella contadina hanno invece una tendenza a costruire la propria esistenza sui legami di parentela, etnici e territoriali, cercando, in caso di trasferimenti, di insediarsi nei quartieri etnicamente omogenei, che si trasformano quindi in ghetti etnici che riproducono e perpetuano la realta’ di provenienza o dove i gruppi di recentissima immigrazione spesso sostituiscono i penultimi arrivati, che, una volta integrati, tendono ad uscire dal ghetto trasferendosi. Packard conclude la sua analisi ricordando che gli sradicati non hanno senso della comunita’, che non e’ solamente una somma-coacervo di individui, ma un insieme di rapporti sociali intrecciati e stratificati nel tempo. L’associazionismo sociale e la partecipazione politica non possono non essere interessate al fenomeno.

Ma come si costruiscono le identita’ collettive? Analogamente a quelle individuali, anche le identita’ collettive non sono un dato biologico, ma culturale, in un processo di costruzione, decostruzione e ricostruzione continuo. Benedict Anderson nel volume “Comunita’ immaginate”12, ricostruisce la storia di queste costruzioni collettive analizzando fonti inconsuete, poco istituzionali, ma fondamentali, come la stampa periodica, i bollettini parrocchiali e quant’altro puo’ avere contribuito a formare, nell’epoca della “grande trasformazione” territoriale, sociale e culturale seguita all’affermazione del capitalismo industriale ottocentesco, quelle comunita’ che per evidenti ragioni numeriche non possono ritrovarsi intorno ad un tavolo o in una sala riunioni, come una famiglia o un consiglio di amministrazione aziendale, ma che richiedono continui sforzi di immaginazione per la loro costruzione e per la loro identificazione. Comunita’ immaginate, appunto, ma non per questo meno concrete di altre, e per le quali milioni di persone hanno perso la vita nei secoli scorsi, piu’ o meno volontariamente. Gli stati nazionali moderni sono costruzioni sette-ottocentesche che hanno investito molto nella costruzione di storie, lingue e tradizioni comuni per organizzare il loro futuro. Come per ogni individuo e/o comunita’, tanto piu’ si hanno progetti riguardanti il futuro, tanto piu’ si valorizza il passato. Chi vive “alla giornata” non pianifica il futuro e non si interessa del passato. Le storie nazionali sono state costruite come biografie (collettive) nazionali, e la cartografia, la museografia ed i censimenti somigliano agli album fotografici, i luoghi della memoria e alle analisi dei budget disponibili.

Nel volume intitolato “Voglia di comunita’”13, traduzione non letterale dell’originale “Missing Community”, comunita’ scomparse, il sociologo Zygmunt Baumann ricorda che l’ansia e l’insicurezza dei cittadini postmoderni aumentano progressivamente anche a causa della competitivita’ che la riorganizzazione capitalistica richiede continuamente e conseguentemente cresce il desiderio di una comunita’ “calda” nella quale rifugiarsi: la famiglia, la piccola comunita’, l’etnia, che diano accoglienza, sicurezza e benessere. Pochi pero’ sarebbero disposti a pagarne il prezzo in termini di obbedienza, liberta’ ed autonomia. In questa dicotomia tra sicurezza e liberta’, comunita’ ed individualita’, si gioca il destino dell’essere umano che ne’ personalmente ne’ collettivamente potra’ mai realizzare la speranza, ma nemmeno smettere di sperare. Concetti ribaditi nel volume “La solitudine del cittadino globale”14, dove si ricostruiscono le vicende degli ultimi vent’anni, caratterizzate dalla perdita dei sentimenti identitari collettivi a favore dell’individualismo senza limite, dal disinteresse per il bene comune, la lealta’ istituzionale del rapporto tra il cittadino e lo Stato, e dal conformismo consumista, cause dell’impotenza dell’agire politico collettivo e della politica, destinata ad essere sempre piu’ locale ed insignificante.

Della debolezza politica, culturale e progettuale dei partner dell’SVP

Analizzando il dato elettorale relativo alle elezioni provinciali, i consiglieri provinciali italiani erano 10 su 34 nel 1973, ma, considerando che il consigliere provinciale di lingua tedesca del PCI veniva votato dai militanti italiani fedeli alle indicazioni del partito, gli italiani eleggevano 11 consiglieri; 10 su 34 nel 1978, ma, considerando che all’epoca la maggior parte della militanza e dell’elettorato della Neue Linke/Nuova sinistra era di lingua italiana, gli italiani eleggevano 11 consiglieri; 10 su 35 nel 1983; 9 su 35 nel 1988; 10 su 35 nel 1993; 9 su 35 nel 1998, 7 su 35 nel 2003.

Applicando al passato l’attuale schema politico, 30 anni or sono il centrosinistra raccoglieva 10 consiglieri su 11; fino a ieri 2 su 7 ed ora 3 su 8. La lettura inversa e’ ovviamente identica ma ben piu’ impressionante: 30 anni or sono il centrodestra raccoglieva 1 consigliere su 11; nel 2003 5 su 7. Di politicamente rilevante rimane il fatto che da vent’anni gli assessori altoatesini non li sceglie l’elettorato italiano ma l’SVP, togliendo loro ad ogni legislatura importanti competenze, e conseguentemente potere, autorevolezza e credibilita’.

Il programma politico della Giunta provinciale per la legislatura 2003-2008, che dovrebbe costituire un principio-guida della politica locale nei prossimi cinque anni, contiene riferimenti alla rappresentativita’ per le nomine e gli incarichi negli enti pubblici:

“Nei rapporti politici tra i partiti della coalizione occorre affermare un sistema di regole e di comportamenti che eviti tensioni e lacerazioni e che rafforzi il metodo del dialogo fondato sul consenso e la pari dignita’ tra le forze politiche e i gruppi linguistici. I partiti della coalizione concordano nella volonta’ di individuare, per le nomine e gli incarichi in enti pubblici, criteri che tengano conto, sia dei requisiti di professionalita’, competenza, e rappresentativita’ civile anche ai vertici, affinche’ a tutti i gruppi linguistici sia garantito il giusto principio della rappresentanza. In particolare occorre operare concretamente per garantire che all’interno del gruppo linguistico italiano possa radicarsi un ampio e condiviso senso di partecipazione al governo della cosa pubblica.”

L’applicazione pratica di questo giusto principio e’ stata l’ennesima cooptazione in giunta degli esponenti politici meno votati dagli altoatesini, ai quali sono state sottratte ulteriori importanti competenze, come accade oramai da alcune legislature.

Per spiegare cosa puo’ partorire nel settore culturale, dove si dovrebbero elaborare strategie comuni per la “cultura della convivenza”, questa alleanza fatta “in nome della convivenza e per spirito di servizio”, ricordo solamente un paio di cosette.

La Giunta comunale di Bolzano del periodo 2000-2005 non ha sdoppiato l’assessorato alla cultura, limitandosi alla creazione di un ufficio per le associazioni tedesche ed un assessorato per i beni culturali, da affidare ad un tedesco. Fin qui nulla di male: si puo’ fare una buona politica culturale anche con due assessorati separati e/o si puo’ fare una pessima politica anche con un unico assessorato alla cultura. Quello che non risulta comprensibile e’ la scelta politica di fondo del centrosinistra italiano: di fronte alle dichiarazioni di Durnwalder che, durante le trattative per la formazione della Giunta provinciale nel gennaio 1999, ha dichiarato che non erano ancora maturi i tempi per l’accorpamento dell’assessorato provinciale alla cultura italiana con quello tedesco, Ferretti, dopo avere patteggiato ed essere stato affidato ai servizi sociali, ha preso piu’ volte posizione auspicando l’accorpamento dei due assessorati provinciali e Di Puppo ha ribadito la posizione del suo illustre predecessore. Non capisco perche’ si stiano creando i presupposti per l’accorpamento dei due assessorati provinciali alla cultura e, contemporaneamente, per la divisione dell’assessorato comunale alla cultura di Bolzano, in una prospettiva dove gli altoatesini della provincia saranno concentrati a Bolzano, Merano e Laives. L’impressione e’ che qualcuno aspetti il momento opportuno per mettere insieme le volpi e le galline, in nome del valore universale della cultura o delle comuni origini territoriali tirolesi.

Come funziona attualmente la nomina dei componenti dei consigli di amministrazione e dei comitati scientifici nei musei provinciali? I partiti politici nominano i membri dei consigli di amministrazione, e questi nominano i membri dei comitati scientifici. La tradizione politica italiana vuole che la maggior parte dei componenti sia nominata ovviamente dai partiti di maggioranza, ma che una parte sia indicata dai partiti di opposizione. In Sudtirolo questa e’ considerata evidentemente un’inutile perdita di tempo, ed i partiti di giunta nominano tutti i componenti dei consigli, senza dare il minimo spazio all’opposizione. Se il consiglio di amministrazione ed il comitato scientifico sono costituiti ognuno da 8 persone, 6 sono tedeschi e 2 sono italiani. I 6 tedeschi sono nominati ovviamente dall’SVP, la quale da’ precise direttive sulla linea politico-culturale da seguire e puo’ scegliere anche tra persone che, seppur coccolate e viziate e spesso improponibili in altri ambiti territoriali non protetti come quello provinciale, a volte hanno delle buone idee e possono avere anche un cognome italiano, purche’ il nome sia in controtendenza. I 2 italiani se li spartiscono i due assessori italiani che nominano quasi sempre persone che sembrano pescate direttamente dall’elenco telefonico, generando continuamente quella spirale tra crisi della partecipazione politica, della rappresentativita’, della credibilita’ e della progettualita’ politica. Nominato il consiglio di amministrazione quest’ultimo nomina il comitato scientifico, ma li’, improvvisamente, si riscopre lo spirito unitario, e quindi non sono i 2 italiani del consiglio di amministrazione a nominare i 2 italiani del comitato scientifico, ma tutti e 8 i componenti del consiglio di amministrazione nominano i componenti del comitato scientifico. Il risultato puo’ essere che anche i componenti italiani se li sceglie l’SVP, come e’ accaduto recentemente al Museion.

Questa coalizione ha trovato dei buoni alleati nei Verdi che, pur quasi completamente esclusi dal business del potere locale, hanno deciso giustamente di combattere il nazionalismo del partito etnico italiano alleandosi assurdamente ed ingenuamente con il partito etnico tedesco, con il quale hanno stretto nel 2001 e nel 2006 un patto elettorale di doppia desistenza, insieme al centrosinistra italico, spacciato per accordo politico, conseguentemente al quale il deputato ed il senatore della circoscrizione a maggioranza italiana sono risultati i meno eletti dagli altoatesini. L’SVP ha ringraziato tutti ribadendo pochi mesi dopo che il censimento non si tocca, che le scuole bilingui non si faranno mai e che la toponomastica bilingue deve sparire.

Dall’altra parte la destra italica che, dopo avere lottato per anni contro il principio dell’autonomia, non contro lo spirito con il quale la DC e l’SVP l’hanno attuata; contro i tedeschi, non contro il partito etnico tedesco; contro il bilinguismo, non contro il patentino; contro la democrazia, non contro la degenerazione partitocratica; contro la Costituzione, non contro la sua mancata applicazione; ecc. ecc., e avere fortunatamente perso, ora dopo avere bevuto un paio di bicchieri di acqua Fiuggi si presenta come un partito di difesa etnica, democratico ed autonomista, esattamente come l’SVP, partito al quale e’ piu’ simile di quel che pensano i loro stessi esponenti. A parte le valutazioni sul passato, ovviamente.

Lo Statuto prevede per l’SVP l’obbligo di prendersi in giunta provinciale due italiani, non necessariamente i due italiani piu’ votati. Provate a pensare una situazione come quella che vivono gli altoatesini a livello provinciale da vent’anni con un altro scenario storico, etnico o politico. Cosa avrebbe fatto l’SVP nel 1969 se lo Stato italiano avesse detto: “OK, vi concediamo l’autonomia provinciale. Ma, visto che molti di voi sono stati filonazisti fino a vent’anni or sono e altrettanti sono stati recentemente fiancheggiatori del terrorismo, sceglieremo noi quali saranno i rappresentanti politici sudtirolesi cui affidare i posti decisionali provinciali!” Pensate cosa farebbe l’SVP se una ipotetica maggioranza di destra italiana nel Consiglio comunale di Bolzano decidesse di cooptare in giunta due sudtirolesi come Kurt Pancheri della Lega, ad esempio. Lo Statuto sarebbe rispettato, gli elettori sudtirolesi un po’ meno. Provate ad immaginare cosa farebbero i partiti del centrosinistra italico virtualmente interetnico se fossero loro i piu’ votati da vent’anni, e l’SVP scegliesse la destra come partner di giunta.

A chi, a sinistra e tra i Verdi, dice giustamente che i sentimenti nazionali non sono degli elementi biologici ma delle costruzioni culturali, ricordo l’importanza politica e sociale di tali costruzioni, soprattutto tra la gente povera materialmente e culturalmente, e l’importanza di capire come sono state costruite queste identita’ e di come potrebbero essere trasformate con progetti politici e culturali concreti e non con ipocriti appelli retorici alla convivenza che non risultano meno fastidiosi della retorica nazionalista. A chi cinicamente ricorda che ormai le identita’ etniche sono uno dei possibili criteri di spartizione delle risorse ricordo che non spetta ad uno degli attori sociali, quello localmente dominante, nominare il rappresentante dell’altro gruppo, pena la sensazione per gli appartenenti all’altro gruppo di sentirsi esclusi dal gioco. La sicurezza e la pari dignita’ dei gruppi costituisce il presupposto e non la conseguenza della convivenza e per superare giustamente la spartizione etnica del potere bisognerebbe prima arrivarci.

Ad una debolezza strutturale, politica e culturale dei rappresentanti politici italiani scelti dall’SVP corrisponde una debolezza dei loro funzionari – a parte quei pochissimi che cinicamente decidono di tirare la campagna elettorale ad assessori inconsistenti dal punto di vista politico e culturale proprio per continuare ad esercitare il loro straordinario potere – e dei loro consulenti, chiamati a coprire quei pochi posti, assolutamente irrilevanti nella sostanza, che spettano agli altoatesini, come e’ accaduto recentemente all’Universita’ di Bolzano.

Le commemorazioni dell’Accordo De Gasperi-Gruber

Anche il settore delle celebrazioni non puo’ essere visto come una serie di scelte casuali ed oggettive. Scegliere di stanziare 10 miliardi di lire per restaurare i forti simboli di Castel Tirolo, dell’Abbazia di Stams e per realizzare una mostra su Mainardo II, fondatore del Tirolo storico, o scegliere di stanziare 50 milioni per ricordare il 50° anniversario della Liberazione dal nazi-fascismo – come e’ stato fatto a meta’ anni Novanta -, non e’ semplicemente un problema di bilancio, ma e’ una chiara scelta politica. Lo sa perfettamente chi, nell’introduzione al catalogo della mostra di Mainardo II, ha scritto:

“Il Tirolo medievale era una regione europea economicamente solida, plurilingue e con relazioni internazionali. La mostra in memoria di Mainardo II si inserisce in un contesto molto attuale, dal momento che la creazione della Regione europea del Tirolo offre l’opportunita’ storica di ricongiungere, attraverso la collaborazione in ambiti diversi, le entita’ politiche ora divise dell’antico Tirolo, pervenendo al contempo ad una certa autonomia. Gli interessi in gioco sono sostanzialmente identici a quelli dell’epoca di Mainardo: circolazione, transito, finanza, economia, amministrazione. Pertanto il significato di questa mostra va ben al di la’ di un nostalgico sguardo retrospettivo su un Medioevo tutt’altro che “buio” e di un’operazione di politica culturale condotta di comune accordo. Essa potrebbe essere di stimolo ad un riesame approfondito dell’odierna configurazione del Tirolo”15.

Dieci anni piu’ tardi lo stesso rapporto tra storia e politica ed uso politico della storia si e’ verificato in occasione dei 60 anni dell’Accordo De Gasperi-Gruber.

Pur con l’opposizione dei sudtirolesi, De Gasperi riusci’ ad allargare il quadro di riferimento dell’autonomia prevista dall’Accordo di Parigi all’intera regione, offrendo l’autonomia anche al Trentino e ponendosi come sentinella nei confronti dei sudtirolesi e difensore degli equilibri etnici della regione, complessivamente favorevoli anche agli altoatesini di lingua italiana.

Subi’to dai sudtirolesi, che avrebbero voluto l’autodeterminazione, e non voluto dagli altoatesini, che politicamente si sentivano tutelati dallo Stato, il primo Statuto venne gestito all’epoca di Odorizzi – che fu anche l’epoca della Guerra fredda e dell’estromissione delle sinistre dalle responsabilita’ di governo – con una logica centralistica/regionale/trentina e quindi con i sudtirolesi come gruppo minoritario, che oggettivamente rischiava l’assimilazione, senza la piena applicazione dell’articolo 14 che prevedeva l’esercizio dell’autonomia da parte della Regione anche attraverso deleghe alle due Province.

Dopo la crisi politica del primo statuto, il Los von Trient ed il terrorismo, con l’emanazione del secondo statuto la Regione e’ stata progressivamente svuotata e le competenze sono state trasferite alle due Province. I trentini hanno fatto questa operazione nei confronti delle minoranze nazionali residenti in Alto Adige con la stessa logica con la quale posso regalare biancheria intima alle mie amanti, facendo quindi un regalo che sicuramente mi viene restituito, ulteriormente valorizzato. Per venti anni dopo l’emanazione del secondo Statuto le minoranze nazionali presenti nel Trentino sono state poco riconosciute, ma non tutelate, ed il progressivo riconoscimento e la tutela sono cresciute man mano che nell’opinione pubblica italiana crescevano le perplessita’ sulla invidiabile realta’ trentina, dove ci sono i soldi e le competenze dell’Alto Adige senza i relativi problemi etnici.

Mentre nel 50° anniversario dell’Accordo la classe politica trentina e sudtirolese sembrava piu’ interessata al progetto di euroregione tirolese – anche perche’ sembrava evidente l’implosione della “prima repubblica” – in occasione del 60° anniversario notevoli sono state le risorse messe in campo, soprattutto dalla classe politica trentina, che ha istituito un premio intitolato a De Gasperi conferendolo – con l’assenza della classe politica sudtirolese – pochi giorni prima delle cerimonie per l’Accordo, celebrate separatamente e mai in una cornice regionale. Lo sgarbo istituzionale – come sempre amplificato dai media e ignorato dai politici altoatesini, che sembrano non avere assolutamente nulla da dire -, ha portato ad un innalzamento della tensione, rilassata solamente quando il governatore del Trentino ha detto di condividere la proposta del Landeshauptmann sudtirolese di eliminare la toponomastica italiana dell’Alto Adige, ad ennesima dimostrazione che e’ sempre facile essere generosi quando non si toccano i propri interessi.

Ma il capolavoro dell’operazione politico-culturale dell’Autonome Provinz Bozen e’ senz’altro il numero speciale della rivista “Provincia Autonoma” dedicato all’evento16, distribuito in 67.000 copie nelle due versioni linguistiche, con la consulenza dello storico Andrea Di Michele, neo assunto ricercatore dell’Archivio provinciale, il primo di lingua italiana, dopo che per anni tutti e cinque erano di lingua tedesca.

Nell’editoriale il presidente della giunta provinciale Durnwalder, sotto una sua foto ampiamente ritoccata per cancellare i segni del tempo, afferma:

“I 60 anni che ci separano dalla firma dell’Accordo di Parigi sono un’occasione di gioia o di rammarico? Le opinioni a tale riguardo possono essere discordanti. Ma una cosa e’ certa: l’Accordo firmato da Karl Gruber e Alcide De Gasperi, il 5 settembre 1946, e’ stato il primo passo verso l’attuale Autonomia. Nel 2006 l’Alto Adige e’ una terra che vive nel benessere e che offre una patria a tre gruppi etnici. L’anniversario dei 60 anni dell’Accordo di Parigi e’ percio’ soprattutto un’occasione per ricordare il punto di partenza di questo sviluppo positivo. Ogni altoatesino, di madrelingua tedesca, italiana o ladina deve avere chiaro il concetto che la sicurezza economica, la pacifica convivenza e le grandi opportunita’ future offerte oggi dall’Alto Adige non sono qualche cosa di ovvio (…)”

E tutto il fascicolo conferma la tesi. Lo storico sopra citato ha pensato bene di inserire come articolo di fondo – quello dove solitamente si inseriscono le tesi interpretative, se se ne hanno – un proprio articolo contenente una inezia assolutamente insignificante sul piano storico, conosciuta da ogni addetto ai lavori, relativa al fatto che la fotografia che spesso accompagna gli scritti relativi all’Accordo non e’ stata scattata a Parigi in quell’occasione, ma a Roma nei primi anni Cinquanta. Evidentemente l’autore del sito: http://www.provincia.bz.it/pariservertrag/index_i.asp non ha letto la preziosa informazione, ed ha utilizzato la fotografia fasulla nell’home page del sito provinciale.

Una particolare attenzione per le fonti iconografiche o una scelta per non prendere posizione sulle questioni di fondo, come il “Frame” o il centralismo dei democristiani romani e trentini degli anni Cinquanta? La domanda maliziosa viene confermata girando la pagina, quando si trovano due pagine di cronologie senza riferimento alcuno alla crisi dello Statuto del 1948, al “Los von Trient”, al terrorismo ed altre cosette di questo tipo, saltando direttamente dal 1948 non al 1972, anno di emanazione del 2° Statuto, ma al 1969, ricordando l’approvazione del “Pacchetto” da parte del congresso straordinario dell’SVP, confermando di avere interiorizzato la proposta avanzata dal padrone dell’autonomia di indire una “Festa provinciale della convivenza” non in occasione dell’emanazione della legge costituzionale italiana, ma in occasione dell’approvazione del “Pacchetto” da parte del suo partito.

Seguono altri articoli di storici e giornalisti indigeni, tutti rigorosamente ed evidentemente di area politica Ulivo-SVP.

Nell’articolo di Steinacher, ad esempio, si legge che “Solo negli anni Ottanta, con il processo di integrazione europea, la fine della guerra fredda e l’ampliamento dell’autonomia, cessarono definitivamente le tensioni in Alto Adige.” Non occorre essere uno storico od un fine politologo per ricordarsi che il processo di integrazione europea era iniziato prima ed e’ un processo tuttora in corso – ma Maastricht, Schengen e l’adesione austriaca all’Unione europea sono comunque degli anni Novanta -, le cui conseguenze sulla questione altoatesina sono importanti ma non esaustive, come dimostrato dalla recente approvazione della mozione di Kohl relativa all’inserimento nel preambolo della nuova Costituzione austriaca del riferimento alla funzione tutrice dell’Austria rispetto alla popolazione sudtirolese, preceduta dalla sottoscrizione dei sindaci SVP dell’analoga richiesta riferita al diritto di autodeterminazione. La fine della guerra fredda e’ avvenuta solamente dopo la caduta del muro di Berlino, a partire dalla fine del 1989, e quindi dopo gli anni Ottanta. L’ampliamento dell’autonomia e’ un processo tuttora in corso, che non ha caratterizzato solamente gli anni Ottanta. Ma dire che negli anni Ottanta cessarono definitivamente le tensioni in Alto Adige e’ una pura idiozia, visto che a partire dalle elezioni provinciali del 1983 e da quelle comunali del 1985 gli altoatesini hanno iniziato a votare massicciamente un partito che allora era nazionalista, antiautonomista e neofascista, mentre i voti usciti per protesta dall’SVP negli anni Ottanta sono andati per un terzo ai Verdi e per due terzi a partiti ultranazionalisti sudtirolesi, contrari all’autonomia e teorici dell’autodeterminazione. A livello politico oramai da vent’anni la maggioranza dell’elettorato altoatesino vota per un partito etnico, da sempre nemico della Provincia, mentre da sessant’anni la maggior parte dei sudtirolesi vota per un partito etnico, da sempre nemico dello Stato. Ma forse Steinacher e Di Michele si riferiscono esclusivamente alla sensibilita’ politica ed etnica dei sudtirolesi, l’unica degna di nota in certi ambiti politico-culturali che riconoscono l’importanza dell’identita’ culturale nelle minoranze etniche nazionali ed anche nei gruppi stranieri di recente immigrazione, ma la negano fortemente per quanto riguarda gli altoatesini di lingua italiana, e considerano ogni tentativo di ricostruirne e divulgarne la storia operazioni finalizzate alla costruzione del “partito di raccolta degli italiani”17. Nella seconda parte dell’inserto, tendente ad osannare le magnifiche sorti e progressive dell’autonomia per tutti i gruppi etnici, Franz Volgger, direttore dell’Ufficio stampa della Giunta provinciale, parla di pseudo-autonomia del 1948 in un articolo dove la convivenza e’ rappresentata da una fotografia che ritrae tre Bauer sudtirolesi ed un carabiniere altoatesino che giocano allegramente a Watten in una Stube, pubblicata sopra un’altra foto dove l’identita’ degli altoatesini e’ rappresentata da una manifestazione di ultra’ sportivi che manifestano – in Piazza della Vittoria, ovviamente! – seminudi e avvolti nei tricolori.

Segue l’intervento di Paolo Valente che, essendo stato per anni il giornalista responsabile della rivista della Diocesi di Bolzano-Bressanone, vede il Bene e la Mano della Provvidenza anche dove altri vedrebbero solamente nazionalismo e tentativi di snazionalizzazione, ovviamente reciproci.

“Ancora piu’ attuali e lungimiranti sono altre norme contenute nell’accordo. Sempre all’articolo 1 si dice che i diritti di cui si e’ parlato devono essere sanciti da disposizioni speciali le quali sono destinate “a salvaguardare il carattere etnico e lo sviluppo culturale ed economico del gruppo di lingua tedesca”. Vale la pena sottolineare che questa normativa ha lo scopo di tutelare il “carattere etnico” e culturale del gruppo tedesco e non, come a volte emerge dai fatti, a sancire il “carattere etnico” della provincia. Il territorio come tale non e’ connotato etnicamente e men che meno lo e’ l’autonomia. (…) In altre parole l’autonomia e’ fin da subito intesa come autonomia territoriale, patrimonio di tutta la popolazione (o “le popolazioni”).”

Parole che rincuorano in un territorio dove vige il censimento etnico della popolazione e la conseguente spartizione delle risorse sulla base dell’appartenenza etnica, ma che preoccupano pensando al perenne problema dell’indipendenza della cultura e della ricerca storica dal potere politico locale, unica e a volte generosissima fonte di finanziamento per giornalisti e storici – spesso senza titoli accademici o scientifici – che inevitabilmente finiscono per essere corifei del potere politico locale.

Gli intellettuali embedded e l’autonomia del Mulino bianco

In informatica, con il termine sistema embedded (sistema incapsulato) si identificano genericamente dei sistemi elettronici a microprocessore progettati appositamente per una determinata applicazione, spesso con una piattaforma hardware ad hoc, integrati nel sistema che controllano e in grado di gestirne tutte o parte delle funzionalita’. In questa area si collocano sistemi di svariate tipologie e dimensioni, in relazione al tipo di microprocessore, al sistema operativo, ed alla complessita’ del software che puo’ variare da poche centinaia di byte a parecchi megabyte di codice.

Nel mondo dei media si parla dei giornalisti embedded, ossia ”incastrati” nell’esercito, che si muovono con le truppe, ovviamente con l’autorizzazione dei comandi militari. Per fare questo tipo d’esperienza si deve sottoscrivere un contratto che pone dei limiti nelle possibilita’ di movimento. I giornalisti embedded raccontano gli avvenimenti da un punto di vista altrimenti irraggiungibile, ma non sempre e’ facile trovare un giusto equilibrio fra i condizionamenti che possono derivare dalla protezione offerta dall’esercito e la necessaria indipendenza di un giornalista.

La sindrome di Stoccolma e’ invece una condizione psicologica nella quale una persona vittima di un sequestro puo’ manifestare sentimenti positivi nei confronti del suo sequestratore, arrivando ad instaurare con lui anche un forte legame affettivo, in alcuni casi fino all’innamoramento. Prende il nome dalla capitale svedese, citta’ in cui nel 1973, a seguito di una rapina in banca, i dipendenti presi in ostaggio richiesero la clemenza alle autorita’ per i loro sequestratori.

La sindrome di Stoccolma e’ talvolta citata in riferimento ad altre situazioni simili, quali le violenze sulle donne e gli abusi sui minori. Quando gli aggressori offrono alle vittime da loro sequestrate la possibilita’ di solidarizzare con loro trovandosi queste in una situazione di costrizione, esse ne fanno abitualmente uso. Negli articoli delle riviste e degli ambienti pseudoscientifici piace parlare poi di ”lavaggio del cervello” subito. Ma sappiamo che si tratta, invece, di esempi tipici del funzionamento degli istinti di conservazione. La ragione per la quale la vittima s’identifica con la volonta’ dell’aggressore e’ da cercare unicamente nel rapporto di potere che si e’ venuto creando. Nei casi qui menzionati e’ evidente che gli aggressori si sono dimostrati piu’ potenti che non l’ambiente protettivo abitualmente garantito dall’ordine pubblico.

Queste brevi definizioni di giornalisti embedded e di sindrome di Stoccolma possono essere utili per comprendere l’attuale situazione culturale della provincia/Provincia di Bolzano, soprattutto nel mondo di lingua italiana.

Oltre al perenne problema dell’indipendenza della cultura e della ricerca storica dal potere politico locale, unica e a volte generosissima fonte di finanziamento per giornalisti e storici – spesso senza titoli accademici o scientifici – che inevitabilmente finiscono per essere corifei del potere politico locale, il problema della ricchezza e dell’unicita’ della fonte di finanziamento assume in questa terra caratteristiche peculiari. Se gli assessori provinciali italiani se li sceglie l’SVP tra i meno votati, le conseguenti scelte riguardanti funzionari e collaboratori-consulenti scientifici saranno sempre caratterizzate dall’atipicita’ della situazione di partenza. Nel settore della ricerca di storia contemporanea questo aspetto risulta particolarmente evidente sia nel caso di finanziamento a singole persone o ad associazioni, sia nel caso ancora piu’ evidente di “semiistituzionalizzazione” dell’associazione, come e’ accaduto al “Gruppo di ricerca per la storia regionale – Arbeitsgruppe Regionalgeschichte” di Bolzano, fenomeno amplificato dal contemporaneo passaggio del movimento dei Verdi – area di riferimento politico della maggior parte dei soci – da movimento di opposizione a partito organico all’alleanza politica Ulivo-SVP a partire dalle elezioni politiche del 2001, partito che “flaianamente” porta soccorso ai vincitori nelle uniche occasioni in cui il partito pigliatutto risulta politicamente in difficolta’, come nelle elezioni comunali di Bolzano e in occasione delle elezioni politiche nella circoscrizione del capoluogo.

Anche nel vicino Trentino la Provincia quando finanzia attivita’ culturali cerca di inserire nei comitati scientifici propri rappresentanti, ma la presenza di una societa’ matura, caratterizzata da una molteplicita’ di attori sociali e culturali – come l’universita’ – ed una situazione che non vede la presenza di minoranze etniche ne’ dominate ne’ dominanti compensa il peso della sua presenza.

Per quanto riguarda l’universita’ in Alto Adige invece e’ sufficiente effettuare una navigazione in:

http://wis.unibz.it/staff/staff.asp?LanguageID=IT&type=coll&letter=v e leggere i nomi ed i curricola dei collaboratori per verificare che, oltre al fatto che gli altoatesini ricoprono ruoli marginali, quei pochi che sono cooptati anche all’Universita’ di Bolzano-Bressanone sono sicuramente politicamente corretti ma hanno professionalita’ che nel resto d’Italia e dei paesi civili farebbero sorridere.

In Alto Adige la Provincia e’ gestita esclusivamente da un partito statutariamente etnico che si sceglie i rappresentanti dell’altro gruppo etnico da cooptare nei centri di potere, lasciando loro dei ruoli assolutamente insignificanti. Il dato quantitativo di 30.000 italiani dell’Alto Adige che sono scomparsi negli ultimi 35 anni, a partire dall’emanazione del 2° Statuto, e’ quantitativamente impressionante ma non e’ cosi qualitativamente significativo se non analizziamo la scomparsa di esponenti di questo gruppo da tutti i luoghi deputati alla gestione del potere, da quello politico a quello economico a quello culturale. Chi critica il sistema di potere e’ sempre considerato un provocatore/nazionalista/fascista. Trenta anni or sono erano i padri fondatori dei Verdi ad essere considerati cosi’; ora sono i Verdi – partito organico al sistema di potere Ulivo-SVP – ad usare le stesse parole contro chi non condivide le scelte di stare al potere con un partito statutariamente etnico.

In una terra dove l’intreccio del potere politico e mediatico della famiglia Ebner/SVP farebbe impallidire Berlusconi in termini di share d’ascolto e di risultati elettorali; dove i ruoli locali della magistratura impediscono la rotazione delle cariche ed i periodici trasferimenti dei magistrati; dove la magistratura amministrativa che dovrebbe giudicare il potere politico locale e’ nominata dal potere politico locale; dove la classe politica e dirigente degli altoatesini viene scelta direttamente ed indirettamente dal partito etnico sudtirolese, la progressiva provincializzazione della cultura e della politica non potra’ che avere effetti devastanti. A livello politico, dopo avere scelto per vent’anni la classe politica degli altoatesini, l’SVP ha gia’ dichiarato che non intende assumersi la gestione diretta degli altoatesini, ma intende favorire la nascita di una aggregazione etnica di centro, il partito degli “altoatesini buoni”. Come sempre accade, tra gli intellettuali ci sono le avanguardie della societa’, quelli della convivenza. L’Autonomia del mulino bianco, modello anche per il Tibet, e’ un gigantesco ed incantevole spot dal budget favoloso.

1 Articolo pubblicato in: «Il Cristallo. Rassegna di varia umanita’», numero 1-2, XLVIII, 2006, pagine 52-81.

2 Identita’ regionali nelle Alpi, a cura di STUART WOOLF e AGOSTINO AMANTIA, Belluno, Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Eta’ Contemporanea, 1999.

3 https://www.giorgiodelledonne.it/.

4 FERNANDO SAVATER, Contro le patrie, Milano, Ele’uthera, 1999.

5 Per la storia della storiografia sudtirolese vedi: UMBERTO CORSINI, La «questione altoatesina» nella pubblicistica e nella storiografia, in: GIORGIO DELLE DONNE, Bibliografia delle bibliografie relative alla questione altoatesina, Milano, Editrice Bibliografica, 1994, pagine 21-63; CHRISTOPH HARTUNG VON HARTUNGEN, Le ricerche di storia locale in Alto Adige/Suedtirol-Tirolo, in: Ricerca e didattica della storia locale in Alto Adige/Suedtirol, a cura di GIORGIO DELLE DONNE, Trento, Societa’ di Studi Trentini di Scienze Storiche, pagine 29-93; GIUSEPPE ALBERTONI, Le terre del vescovo, Torino, Scriptorium, 1996, pagine 11-84; MICHAEL WEDEKIND, Nazionalismi di confine, Trento, Museo trentino del Risorgimento e della lotta per la liberta’, 1994; HANS HEISS, WOLFGANG MEIXNER, GUSTAV PFEIFER, Editoriale, in: Nationalismus und Geschichtsschreibung – Nazionalismo e storiografia, numero monografico di: «Geschichte und Region – Storia e Regione», V, 1996, pagine 5-12.

6 ERIC HOBSBAWM, TERENCE RANGER, L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1987.

Sull’uso pubblico della storia vedi:

NICOLA GALLERANO, L’uso pubblico della storia, Milano, Franco Angeli, 1995; REMO BODEI, Libro della memoria e della speranza, Bologna, Il Mulino, 1995; REMO BODEI, Se la Storia ha un senso, Bergamo, Moretti & Vitali, 1997; PIERO BEVILACQUA, Sull’utilita’ della storia per l’avvenire delle nostre scuole, Roma, Donzelli, 1997.

Sul rapporto tra storia ed identita’ vedi:

JAN ASSMANN, La memoria culturale, Torino, Einaudi, 1997; UGO FABIETTI, VINCENZO MATERA, Memoria e identita’, Roma, Meltemi, 1999.

7 IVO MATTOZZI, La didattica della storia locale. Criteri metodologici e riferimenti normativi, in: Ricerca e didattica della storia locale in Alto Adige/Suedtirol, a cura di GIORGIO DELLE DONNE, Trento, Societa’ di Studi Trentini di Scienze Storiche, pagine 97-110.

8 CARLO TULLIO-ALTAN, Ethnos e civilta’, Milano, Feltrinelli, 1995, pagina 21.

9 Sul nuovo etnoregionalismo vedi: Heimat, a cura di ANTONIO PASINATO, Roma, Donzelli, 2000.

10 Sulle presunte origini etniche-nazionali vedi: WALTER POHL, Le origini etniche dell’Europa, Roma, Viella, 2000.

11 VANCE PACKARD, Una nazione di estranei, Torino, Einaudi, 1974.

12 BENEDICT ANDERSON, Comunita’ immaginate, Roma, Manifestolibri, 1996.

13 ZYGMUNT BAUMANN, Voglia di comunita’, Roma-Bari, Laterza, 2001.

14 ZYGMUNT BAUMANN, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000.

15 LUIS DURNWALDER, WENDELIN WEINGARTNER, Presentazione, in: Il sogno di un principe. Mainardo II e la nascita del Tirolo. Mostra storica del Tirolo, Merano-Innsbruck, Museo provinciale di Castel Tirolo-Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum, 1995, pagine 15-16.

16 «Provincia autonoma», Rivista mensile della Giunta provinciale di Bolzano, 9, 2006.

17 ANDREA DI MICHELE, La fabbrica dell’identita’. Il fascismo e gli italiani dell’Alto Adige tra uso pubblico della storia, memoria e autorappresentazione, in: Faschismen im Gedaechtnis / La memoria dei fascismi, A cura di Andrea Di Michele e Gerald Steinacher numero monografico di: «Geschichte und Region – Storia e Regione», 13, 2004, pagine 75-108.