Inno del Trentino, storia & politica

L’Inno del Trentino: storia & uso pubblico della storia1

La polemica seguita alla proposta dell’assessore all’artigianato della giunta provinciale trentina di centrosinistra Panizza di cambiare il testo dell’Inno del Trentino riporta alla memoria e condensa vecchi e nuovi problemi riguardanti l’identita’ nazionale trentina nel corso degli ultimi cent’anni, problema spesso discusso a livello di cultura alta, in sede accademica, dove spesso si discute molto senza giungere a conclusioni nette, e di cultura bassa, nelle osterie, dove da piu’ di ottant’anni si definiscono i trentini “italiani ciapa’ col sciopo”.

L’identita’ nazionale non e’ un dato naturale, ma una complessa e dinamica costruzione culturale che utilizza e rielabora continuamente elementi costitutivi come la lingua comune, la storia comune, le tradizioni, i simboli, ecc.

Le tradizioni e i simboli sono importanti, perche’ permettono anche ai pigri di costruirsi riferimenti identitari. Eric Hobsbawm ci ha spiegato che spesso le tradizioni nazionali, apparentemente millenarie, sono state inventate nel 18° e 19° secolo, ma le nazionalizzazioni delle masse si sono basate anche su questo, e Gorge Mosse ci ha spiegato che anche il nascente movimento sociale cattolico e operaio socialista e comunista tardo-ottocentesco hanno utilizzato inni, bandiere, feste per creare forti sentimenti identitari.

Come scrive l’antropologo Carlo Tullio-Altan, le diverse prospettive relative a diversi casi di studio concordano nell’affermare che alcuni elementi costitutivi dell’identita’ etnica sono comunque presenti:

l’epos, la trasfigurazione simbolica della memoria storica, in quanto celebrazione comune del passato;

l’ethos, la sacralizzazione di norme ed istituzioni di origine civile e religiosa, sulle cui basi si costruisce la socialita’ del gruppo;

il logos, attraverso cui passa la comunicazione sociale;

il genos, la trasfigurazione dei rapporti di parentela;

il topos, l’immagine simbolica della patria e del territorio.

Ma come si costruiscono le identita’ collettive? Analogamente a quelle individuali, anche le identita’ collettive non sono un dato biologico, ma culturale, in un processo di costruzione, decostruzione e ricostruzione continuo. Benedict Anderson nel volume “Comunita’ immaginate”, edito nel 1983 e tradotto in italiano nel 1996, ricostruisce la storia di queste costruzioni collettive analizzando fonti inconsuete, poco istituzionali, ma fondamentali come la stampa periodica, i bollettini parrocchiali e quant’altro puo’ avere contribuito a formare, nell’epoca della “grande trasformazione” territoriale, sociale e culturale seguita all’affermazione del capitalismo industriale ottocentesco, quelle comunita’ che per evidenti ragioni numeriche non possono ritrovarsi intorno ad un tavolo o in una sala riunioni, come una famiglia o un consiglio di amministrazione aziendale, ma che richiedono continui sforzi di immaginazione per la loro costruzione e per la loro identificazione. Comunita’ immaginate, appunto, ma non per questo meno concrete di altre, per le quali milioni di persone hanno perso la vita nei secoli scorsi, piu’ o meno volontariamente. Gli stati nazionali moderni sono costruzioni sette-ottocentesche che hanno investito molto nella costruzione di storie, lingue e tradizioni comuni per organizzare il loro futuro. Come per ogni individuo e/o comunita’, tanto piu’ si hanno progetti riguardanti il futuro, tanto piu’ si valorizza il passato. Chi vive “alla giornata” non pianifica il futuro e non si interessa del passato. Le storie nazionali sono state costruite come biografie (collettive) nazionali, e la cartografia, la museografia ed i censimenti somigliano agli album fotografici di famiglia con i relativi luoghi della memoria.

Ernesta Bittanti scrisse il testo dell’Inno del Trentino, retorico e basato su facili rime baciate come tutti gli inni, all’epoca in cui la pedagogia delle masse avveniva anche con questi mezzi, quasi un secolo prima della subdola propaganda televisiva, quando il mondo sembrava essere nettamente diviso in buoni e cattivi, non come ai nostri giorni dove la differenza tra il centrodestra ed il centrosinistra sembra questione di lana caprina e puo’ accadere che un esponente di una giunta provinciale di centrosinistra faccia delle esternazioni simili a quelle degli etnofederalisti leghisti.

Cesare Battisti, consapevole dei sentimenti della sua gente e del rischio di possibili strumentalizzazioni delle sue scelte, scrisse alla moglie: “Se morro’, mi faranno una lapide; se vivro’, mi lapideranno.” Le cose andarono come andarono, e lapidi e strade dedicate a Cesare Battisti si trovano quasi in ogni comune italiano, perche’ di martiri politici in Italia dalla fine del Risorgimento all’epoca non se ne contavano a iosa, ed il governo liberale prima e la dittatura fascista poi strumentalizzarono la figura del socialista Battisti, facendolo diventare un martire della Grande guerra intesa come 4° guerra di indipendenza, con i 600.000 morti, la conquista di Trento e Trieste e, gia’ che c’erano, anche dell’Alto Adige. Non a caso Ernesta Bittanti si oppose al progetto mussoliniano di costruire a Bolzano un Monumento a Battisti, che divenne quindi il contestatissimo Monumento alla Vittoria, all’interno del quale si trova anche il busto di Battisti, busto che nel settembre 1943, all’arrivo dei nazisti, venne impiccato e trascinato al suolo da un sudtirolese dal trentinissimo cognome che in quei giorni fu responsabile anche della deportazione degli ebrei bolzanini.

Pur con l’opposizione dei sudtirolesi, nel 1947 De Gasperi riusci’ ad allargare il quadro di riferimento dell’autonomia prevista dall’Accordo di Parigi all’intera regione, offrendo l’autonomia anche al Trentino e ponendosi come sentinella nei confronti dei sudtirolesi e difensore degli equilibri etnici della regione, complessivamente favorevoli anche agli altoatesini di lingua italiana. Anche se in occasione delle recenti celebrazioni per il 50° anniversario della morte di De Gasperi Dellai ha sostenuto che questa interpretazione e’ da considerarsi “da rotocalco”, considero ancora attuale questa analisi.

Subi’to dai sudtirolesi, che avrebbero voluto l’autodeterminazione o un’autonomia provinciale, e non voluto dagli altoatesini, che politicamente si sentivano tutelati dallo Stato, il primo statuto venne gestito all’epoca di Odorizzi – che fu anche l’epoca della Guerra fredda e dell’estromissione delle sinistre dalle responsabilita’ di governo – con una logica centralistica/regionale/trentina e quindi con i sudtirolesi come gruppo minoritario, che oggettivamente rischiava l’assimilazione, senza la piena applicazione dell’articolo 14 che prevedeva l’esercizio dell’autonomia da parte della Regione anche attraverso deleghe alle due Province.

Dopo la crisi politica del primo statuto, il Los von Trient ed il terrorismo, con l’emanazione del secondo statuto la Regione e’ stata progressivamente svuotata e le sue vecchie competenze, insieme ad altre precedentemente statali, sono state trasferite alle due Province. I trentini hanno fatto questa operazione nei confronti delle minoranze nazionali residenti in Alto Adige con la stessa logica con la quale posso regalare biancheria intima alle mie amanti o un manuale di cucina a mia moglie, facendo un regalo che sicuramente avra’ delle ricadute positive anche per me.

Per venti anni dopo l’emanazione del secondo statuto le minoranze nazionali presenti nel Trentino sono state poco riconosciute, ma non tutelate, ed il progressivo riconoscimento e la tutela sono cresciute man mano che nell’opinione pubblica italiana crescevano le perplessita’ sulla invidiabile realta’ trentina, dove ci sono i soldi e le competenze dell’Alto Adige senza i relativi problemi etnici.

Ma la storia ed il suo uso pubblico e politico, gli stereotipi e la realta’ a volte contraddittoria e paradossale, sono sempre in agguato.

E’ divertente notare che nei primi anni Novanta lo slogan dell’Azienda di promozione turistica del Trentino, all’epoca di Malossini (1990 d. C. circa) – allora leader del centrosinistra e attuale leader del centrodestra – diceva: “Il Trentino: l’Italia come dovrebbe essere”, ma forse lo slogan era stato elaborato da un creativo postsituazionista con doti di preveggente, che aveva previsto tangentopoli e il destino dell’allora presidente della Giunta provinciale trentina, arrestato pochi mesi dopo.

Negli anni Novanta a Borghetto ed al Brennero, anche conseguentemente allo sfascio morale, politico ed economico dello Stato italiano, migliaia di trentini hanno tirato fuori i vecchi Lederhosen del nonno ed alcuni, non trovandoli, si sono recati a Bolzano e ad Innsbruck per comprarne di nuovi, forse vendendo i jeans, ed insieme a migliaia di sudtirolesi hanno svolto manifestazioni che nulla avevano a che fare con le proposte di una riforma in senso federalista e democratico dello Stato italiano, ma hanno ribadito un pericolosissimo etnocentrismo a carattere regionale, sicuramente non nazionale, ma non per questo meno gravido di conseguenze destabilizzanti.

Nel 1996, in occasione del 50° anniversario degli accordi De Gasperi-Gruber, l’allora presidente della giunta provinciale trentina, l’attuale neoladino Andreotti, a Vienna disse ufficialmente che fortunatamente c’era stata la dimostrazione dell’ancoraggio internazionale dell’autonomia trentina, con l’Austria come potenza tutrice.

L’anno precedente, nell’introduzione al catalogo della mostra di Mainardo II, Durnwalder e Weingartner avevano scritto: “Il Tirolo medievale era una regione europea economicamente solida, plurilingue e con relazioni internazionali. La mostra in memoria di Mainardo II si inserisce in un contesto molto attuale, dal momento che la creazione della Regione europea del Tirolo offre l’opportunita’ storica di ricongiungere, attraverso la collaborazione in ambiti diversi, le entita’ politiche ora divise dell’antico Tirolo, pervenendo al contempo a una certa autonomia. Gli interessi in gioco sono sostanzialmente identici a quelli dell’epoca di Mainardo: circolazione, transito, finanza, economia, amministrazione. Pertanto il significato di questa mostra va ben al di la’ di un nostalgico sguardo retrospettivo su un Medioevo tutt’altro che “buio” e di una operazione di politica culturale condotta di comune accordo. Essa potrebbe essere di stimolo ad un riesame approfondito dell’odierna configurazione del Tirolo.”

Le esternazioni di Panizza quindi non devono meravigliare nessuno. Meraviglia chi non constati che la classe politica trentina, di centrodestra e di centrosinistra, da anni cerchi di scimmiottare l’SVP con motivazioni storiche ed etniche dell’autonomia, quasi che il “sacro egoismo locale” avesse sostituito il “sacro egoismo nazionale” otto-novecentesco che giustifico’ guerre, annessioni e imperialismo, ed anche le polemiche sulle richieste del comune di Ruffre’-della Mendola di essere annesso all’Alto Adige ricordano, in piccolo, le lotte per le annessioni o l’autodeterminazione dei popoli. Una volta come dramma, ora come farsa. Facendo i tirolesi quando si tratta di rivendicare autonomia da Roma; gli italiani quando si tratta di spartirsi le risorse con Bolzano.

Per meglio argomentare la sua proposta di sostituire i riferimenti all’italico cuore, italica mente, italica lingua, Panizza ha in seguito specificato che sarebbe meglio inserire, oltre ai riferimenti all’autonomia, quelli relativi alla caratteristica piu’ evidente della popolazione trentina: la solidarieta’.

Ricordo a questo proposito la storiella dei due trentini-doc, un noneso ed un solandro. Il primo chiese: “Se il Bondone el fusa polenta ed il Garda tocio, ten men daressi un toc?” Il secondo rispose: “Se men svanza”.

Bolzano, 25 maggio 2004.

Giorgio Delle Donne

1 Editoriale pubblicato sul “Trentino” l’11 giugno 2004.