Non c’è futuro senza perdono

Non c’è futuro senza perdono 1

La politica locale spesso ci ricorda, a volte bleffando, che la realta’ presente e’ la conseguenza di quella passata, e che l’autonomia prima di trasformarsi in uno strumento territoriale deve ancora raggiungere l’obiettivo di difendere le minoranze nazionali e, soprattutto, di ripagare questi gruppi dai torti subiti nel passato. Un’autonomia risarcitoria che non deve necessariamente assumere connotazioni relative all’autonomia progressiva, partecipativa e democratico-sussidiale. Questa e’ una delle scelte politico-culturali possibili in una realta’ di questo tipo, ne’ l’unica ne’, a mio avviso, la migliore.

Negli ultimi anni sono stati pubblicati due interessanti libri relativi alla realta’ sudafricana. Non ho mai condiviso l’analisi dei Verdi, che hanno iniziato la loro attivita’ politica alla fine degli anni Settanta paragonando il Sudtirolo al Sudafrica, dicendo che qui vigeva un regime di apartheid, ed ora invitano i propri elettori a votare i candidati SVP e DC “per il futuro di questa terra”. La realta’ sudafricana, cosi’ lontana e cosi’ diversa da quella sudtirolese, e’ a mio avviso interessante perche’ dimostra che un popolo che subisce per decenni un regime di apartheid, dopo avere giustamente lottato per cambiare la situazione non deve necessariamente ribaltarla e ricostruirla con i ruoli invertiti.

Il libro dello storico Marcello Flores “Verita’ senza vendetta” ed il libro dell’Arcivescovo di Citta’ del Capo Desmond Tutu “Non c’e’ futuro senza perdono” ricostruiscono le vicende della Commissione sudafricana per la verita’ e la riconciliazione, istituita nel 1995 ed operante fino al 1998. In quel periodo molti paesi dell’Europa centro-orientale uscivano dall’incubo dei regimi istituiti in nome del comunismo, ma anche molti paesi africani e centro-americani si affacciavano per la prima volta, a volte per brevi periodi, alla democrazia, dopo decenni di colonizzazione, e tutti erano accomunati dal desiderio di ricostruire la propria storia passata e di fare i conti anche con gli aspetti piu’ negativi e dolorosi del proprio passato.

Come sempre, quando si parla del “tempo presente”, il periodo storico recente dove gli attori della storia ne sono anche i testimoni viventi, non sempre e’ facile mantenere un atteggiamento distaccato nei confronti degli eventi conservati recentemente nella propria memoria e, a volte, nella propria carne, ed a volte storia e memoria, volonta’ di giustizia e vendetta si intrecciano con i giudizi storici. Per questo, la scelta politica preliminare e’ fondamentale. Un conto e’ l’esempio del processo di Norimberga, dove le gerarchie naziste vennero chiamate a rispondere non solamente delle proprie gravissime responsabilita’ ma anche di tutti quei “volenterosi carnefici di Hitler” che avevano eseguito ed interiorizzato gli ordini. Altro e’ decidere di procedere ad amnistie generalizzate, come accadde in Italia con la concessione dell’amnistia, della grazia o dell’indulto a 5.328 dei 5.594 condannati per collaborazionismo. Altro ancora e’ la scelta della commissione sudafricana di “perseguire l’unita’ nazionale, il benessere dei cittadini e la pace con la riconciliazione tra i cittadini stessi per la ricostruzione della societa’ attraverso la comprensione, non la vendetta, il risarcimento, non la rappresaglia, l’ubuntu, non il vittimismo”.

Ogni parola puo’ essere diversamente interpretata ed anche tradotta, ma il termine sudafricano ubuntu e’ sicuramente di difficile traduzione nelle lingue europee. Significa contemporaneamente tolleranza e spirito di riconciliazione, sottolineando al tempo stesso che la persona e’ umana nel momento in cui si rapporta con le altre persone. “L’armonia, la benevolenza, la solidarieta’ sono beni preziosi. E per noi il bene piu’ grande e’ l’armonia sociale. Tutto quello che mina, che intacca questo bene a cui aspiriamo deve essere evitato come la peste. La rabbia, il risentimento, la sete di vendetta, la competizione aggressiva per il successo corrodono questo bene. Perdonare non significa soltanto essere altruisti, ma e’ il modo migliore di agire nel proprio interesse: tutto cio’ che rende gli altri meno umani rende meno umani anche noi”. Per questo motivo la resistenza antiapartheid raramente si e’ macchiata di atti disumani: “sarebbe stato facile, durante l’apartheid, fare crescere uno sciovinismo nero come contraltare alla sistematica arroganza bianca e rifiuto dei neri, ma questo risultato venne raggiunto per un espresso rifiuto da parte dell’ANC di ogni forma di razzismo al contrario”

Lo sviluppo della memoria e della produzione storiografica non sempre coincidono con lo sviluppo dell’interesse sociale e la stessa produzione non e’ esente dagli attori sociali in campo e dalle loro scelte. Storici, magistrati, giornalisti danno contemporaneamente notizie e giudizi sui fatti a partire dal momento in cui decidono se il fatto e’ rilevante o meno, in una continua lotta sulla memoria che e’ un tratto saliente delle societa’ sviluppate. Si torna al problema se sia piu’ utile alla convivenza sociale il ricordo o l’oblio, una questione analoga a quella relativa alla punizione o il perdono. Ogni costruzione del passato, ed anche ogni invenzione di tradizione, si fonda su verita’ di parte, piu’ o meno ampiamente condivise, e la ricerca di una storia ufficiale, il desiderio di una storia condivisa, risulta tanto impraticabile nelle societa’ democratiche e complesse quanto praticata e diffusa nei regimi autoritari.

In Sudafrica la scelta di lottare per la liberazione dei negri dal dominio dei bianchi si e’ sviluppata contemporaneamente alla scelta di non creare una societa’ uguale e contraria a quella combattuta. Come afferma Desmond Tuto “Una piccola minoranza aveva monopolizzato il potere politico, che dava accesso a tutte le forme di potere e privilegio, e perpetuava questo iniquo sistema di privilegi con metodi altrettanto iniqui ed immorali. Nella visione di questa “pigmentocrazia”, cio’ che determinava il valore di una persona era l’elemento biologico, un aspetto del tutto arbitrario che alla fine ha rilevato la sua completa irrilevanza. Questo elemento biologico era rappresentato dall’etnia, dalla razza, dal colore della pelle. Le persone non erano automaticamente insignite di valore. Il valore dell’essere umano non era un fenomeno universale ma esclusivo, essendo attribuito solo a coloro che appartenevano alla razza o all’etnia privilegiate. (…) Abbiamo spesso cercato di mettere in risalto l’assurdita’ del razzismo, sperando che i nostri compatrioti bianchi fossero indotti dall’imbarazzo a rifiutare una concezione che poteva risultare grottesca. Suggerivo, per esempio, di provare a sostituire al colore della pelle le dimensioni del naso, ispirandomi al fatto che io ne avevo uno bello grosso. Provate ad immaginare che situazione ridicola si creerebbe se dovessimo stabilire che la tale scuola sia riservata non ai bianchi, come succedeva durante l’apartheid, ma alle persone con il naso grosso, che quello, e non la capacita’ di studio, debba essere il requisito principale. Chi avesse la sfortuna di avere il naso piccolo dovrebbe rivolgersi al Ministero per gli affari dei nasi piccoli, per avere il permesso di frequentare la scuola riservata ai nasi grossi. Quasi tutte le volte che ho raccontato questa storia la gente si sbellicava per le risate, pensando alla stupidita’ ed all’assurdita’ della cosa. Magari fosse stata soltanto una cosa da ridere! Purtroppo non c’era niente da ridere.”

Chi avesse tempo e voglia potrebbe sempre provare a declinare queste considerazioni sulla realta’ territoriale provinciale, e vedere come questi concetti si possono applicare o meno alle diverse comunita’ che qui sono state piu’ o meno fortemente e fortunatamente costruite, nel corso del tempo.

Senza farsi prendere dalla rabbia, con ubuntu.

Bolzano, 5 luglio 2002.

Giorgio Delle Donne

1 Editoriale pubblicato sull'”Alto Adige” il 10 luglio 2002.